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A Calcata, un tempo, si diceva, ci fossero gli hippie

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È da qualche tempo che sentite parlare di Calcata e subito dopo sentite il “paese degli hippie”. Se avete intenzione di andarla a visitare, vi sconsiglio vivamente di utilizzare le etichette “hippie” e “fricchettone” perché gli autoctoni non ve lo perdoneranno. Per me, l’inchiesta socio-antropologica su Calcata è stata un’esperienza per la serie “quando uno se le va a cercare”.

Non so quali siano le informazioni ufficiali su questo paesino della Tuscia, in provincia di Viterbo ma a soli quaranta minuti dalla Capitale, ma la cosa certa è che capirci qualcosa non è semplice. Stiamo parlando di un posto bellissimo e, per sfortuna dei suoi abitanti, niente affatto dimenticato da dio come si dice in giro. Se volete entrare nella sua realtà non solo dovete andarci, ma dovrete anche cercare di entrare in contatto con i calcatesi, operazione decisamente controversa. Io, che se non vedo non credo, a Calcata non solo ci sono andata, ma mi sono anche lasciata ipnotizzare da questi singolari abitanti che per scelta hanno lasciato le più disparate e caotiche città italiane alla volta di un borgo medioevale immerso nel verde e al di fuori da ogni logica.

 

foto di Maria Caro

 

Partiamo con storia e geografia. Calcata è lontana e vicina dal resto mondo, si nasconde nella natura selvaggia, ma bastano pochi chilometri per raggiungere Roma e Viterbo. È completamente immersa nel verde del parco della Treja e dista due chilometri da Calcata Nuova, il paese che è stato costruito successivamente ai problemi di dissesto geologico che avevano costretto gli abitanti del borgo a spostarsi in massa. Negli anni ’60, il borgo è stato ripopolato da artisti e intellettuali dando vita alla famosa leggenda degli hippie.

La mia giornata è stata fatta di sbalzi di umore e di temperature.  Svolazzando di vicolo in vicolo ho cercato di avvicinarmi agli abitanti di un paese che rimane intrappolato nel mito del tutto inesistente dei fricchettoni e che ne soffre realmente la sottomissione. Dopo un classico pranzo in uno dei dieci ristoranti del paese, con un rapporto di un ristorante ogni cinque abitanti, ho incominciato a infastidire le persone per capire qualcosa in più su questo luogo dai contorni incerti.

 

foto di Maria Caro

 

Io e i miei amici ci avventuriamo nei vicoletti e ci godiamo il panorama della valle, visitiamo il Granarone, una delle due gallerie dove proprio quel giorno si inaugurava una mostra collettiva alla quale partecipavano molti degli artisti di Calcata. In seguito, visitiamo i bar e le botteghe e lì comincio la mia opera di persuasione. La prima persona è Martina, una ragazza di diciotto anni che lavora nel bar del padre. È molto disponibile e per niente abituata alle domande dei curiosi, mi spiega che vive a Calcata Nuova e che alla fine della serata il paese è totalmente deserto e quindi, almeno lei, si annoia davvero molto. Il bar è pieno di album rock degli anni settanta, fotografie di Jim Morrison e un video in loop di chissà quale concerto dei Rolling Stones.

Tappa successiva è la bottega di una bellissima ragazza che vende gioielli vintage e che mi spiega come le cose a Calcata siano diverse da come appaiono. Tutti sembrano felici e cordiali, ma in realtà il paese è tormentato da una guerra intestina che lo divide in due. Senza indagare troppo, mi lascio raccontare di come il paese, che una volta era un’unica comunità dove le persone si riunivano nella piazza principale per parlare e fare festa, ora è un covo di rancorosi. Dal mio canto, sbalordita dalla sua storia personale, continuo a chiederle come mai una ragazza di ventotto anni abbia lasciato una grande città per vivere in un posto isolato dal mondo. Con sguardo sospettoso, Elisabetta mi spiega che lì conduce una vita più che normale e che se ci è finita è solo per seguire il suo cuore.

 

foto di Maria Caro

 

Per ristorarci, io e il mio gruppetto di compagni di viaggio, ci rechiamo nella sala da tè più bella del paese interamente ricoperta di quadri, foto, decorazioni e con uno stile un po’ orientale che mi fa sentire a mio agio. Appena ordinato, mi muovo in solitudine per non dare nell’occhio e m’imbatto nell’elite di Calcata. Riesco a parlare finalmente con i veterani. La signora identificata come “la napoletana”, mi racconta di essere una nobile, che Napoli gli manca molto e che si è spostata da tantissimi anni non riuscendo mai più a tornare indietro, come se il borgo l’avesse resa parte di sé. Mi presenta Patrizia, che si dice essere la persona che da più tempo ha messo radici a Calcata e da lì la giornata prende un’altra piega. È un architetto e passa i primi tre quarti d’ora a richiamare gente attorno a sé e a ignorarmi totalmente. Quando mi interpella è solo per darmi lezioni di vita e in qualche modo provocarmi con la speranza che io cominci a parlare male del paese e tirare fuori la solita questione degli hippie.

 

foto di Maria Caro

 

A me la mancanza di attenzioni non dispiace. È aggressiva e preferirei la Calcata bene vista da fuori e non essere ospite/oggetto di studio. Ma non mi disturba neanche, perché le temperature sono calate e io ero uscita un’ora prima senza dare notizie ai miei amici e senza giacca, soprattutto. Intanto si è creato un teatrino di artisti che mi raccontano la loro vita e mi continuano a parlare della mostra tenutasi in giornata, che a quanto pare è un evento molto importante. La persona decisamente più carina tra tutte è Angela, indossa un gonnellone di velluto e ha una particolare pettinatura in stile settecentesco. Mi spiega che vive lì ormai da tanto tempo e con nostalgia mi racconta la vera Calcata del ’68: “Tutti erano stati in India in quegli anni. Ci raccoglievamo nella piazza con i falò e ognuno raccontava dei suoi viaggi e delle sue esperienze. Si ballava, si organizzavano continuamente feste. Erano tutti artisti in qualche modo. Io canto e dipingo. Ora le cose sono cambiate”. È terribilmente nostalgica e accetta l’etichetta di fricchettona con serenità. Mi dice che in quegli anni qualche hippie c’era davvero, ma erano pochi e ormai sono andati via. Patrizia con indelicato sarcasmo continua a dirmi che se sono andata a cercarli lì mi sto sbagliando e infierisce. Saluto mille volte, ho freddo e devo andare in bagno, ma niente, mi placcano.

 

foto di Maria Caro

 

Però ora sono tutti più disponibili e mi rivolgono la parola, si sono sciolti, “Il paese è pieno di invidiosi e di gente che si spaccia per artista” mi dicono. Appena uno si gira l’altro parla male alle sue spalle, sono allibita. Dopo ore di conversazioni per lo più sull’arte e per lo più ascoltate, arrivano i miei amici. Mentre andiamo via Patrizia, invece, ci convince tutti a spostarci nel suo club. Beh, almeno questo glielo posso concedere. Si tratta di uno dei tanti posti assurdi del paese, dove ci sono un bar, quadri dappertutto e la stanza dei costumi. In questo posto la gente si riunisce per stare insieme (occhio, è rigorosamente selettivo, forse addirittura segreto), bere, mangiare, ascoltare musica e travestirsi da personaggi medioevali. Mette su musica classica, ci adorna con corone e spade, per poi fotografarci. Non osiamo sottrarci al rito. Sempre più sconvolti i miei amici, m’implorano di andare via e dopo un bel po’ ottengo la libertà, vigilata però, Patrizia mi aggiungerà su Facebook.

Maria Caro

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Questo è il suo articolo n°444

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