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Alla Clinica delle Bambole non si curano solo pupazzi

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Quando mi hanno proposto di fare un post sulla Clinica delle Bambole di Roma io proprio non avevo idea di che cosa fosse. In effetti, ho immaginato immediatamente un appartamento borghese di proprietà di un, oramai vecchio, ricco ereditiere pazzo che aveva deciso di investire i beni di famiglia in una grossa collezione di pupazzi. Una questione di giustizia storica: investire tutti i soldi di famiglia nelle nevrosi che quegli stessi soldi hanno causato.

Quando una persona cresciuta a chat e puntate di McGyver sente parlare di bambole può pensare a vari tipi di cose, ma nessuna di queste sembra avere reale attinenza con la vita ordinaria. Nessuna di queste, dalle bambole assassine alle perversioni sessuali, sembra adeguarsi ad una normalità clinica. Non lo so perché questa roba come le bambine in vestaglia, i pagliacci e le bambole suscitino così tante brutte aspettative in un paese rappresentato da Borghezio, ma così è.

Quello che è importante è che la Clinica delle Bambole, in realtà, di orrorifico o distorto o nevrotico non ha proprio niente. E’ un posto semplice, tenuto da due persone che sembrano l’incarnazione di ciò che le metropoli stanno svendendo per lasciare il posto a megastore in cui i commessi depressi vestono polo dello stesso colore. Artigiani che coi clienti ci parlano, che gli offrono da bere, che ti chiedono quanti anni hai e ti dicono pure che sembri più vecchio. Sono stato un pomeriggio con loro, e ho visto gente andare e venire, clienti che non vogliono lasciare acconti, amici fermarsi a parlare di politica. Li ho visti commerciare, parlare di difetti, lamentarsi, manifestare una grossa competenza artigianale.

Tutto normale, come se fossimo in macelleria, in un alimentari. Però eravamo letteralmente circondati da bambole, burattini e pupazzi e quei clienti, venivano magari da lontano, per aggiustare un vecchio Pierrot di porcellana. Pagavano, pagavano nel tempo della cassa integrazione e del Monte dei Paschi, magari per cambiare vestito a quel Pierrot.

” La nostra storia non è stata facile, e ancora oggi la nostra situazione è molto precaria. [l’attività è stata per molto tempo di proprietà comunale, e poi è stata venduta a dei privati con poca considerazione dei diritti di quella famiglia che aveva tenuto su la baracca per tutti quegli anni, ndr]. Mi sono dovuta legare in Campidoglio, ed anche fuori dal negozio per poter mantenere uno spazio. E non l’ho fatto solo per la mia famiglia, ma perché tenessero in considerazione l’attività stessa.”

A quel punto la domanda è venuta da sola: non credo infatti che una clinica delle bambole, ossia – lo ripeto – un posto dove si riparano bambole e pupazzi, faccia i milioni. Dunque difficile capire il senso di tutta quella battaglia, difficile di certo vederne uno solo nei soldi che i signori tirano su da quell’attività. E con questo non voglio di certo fare il romantico, suggerire al cantante dei Modà la conclusione del suo sicuramente prossimo esordio letterario: dico solo che nell’attaccamento di quei due artigiani (si,nel mio curriculum posso dire di aver conosciuto due artigiani) c’è un nonsocché di emotivo. Quelle persone, così come i loro clienti, vedono nelle bambole qualcosa di importante. Qualcosa a cui hanno dedicato la vita, e a cui continuare a dedicarla.

“Prima di tutto l’amore per le bambole. Le bambole sono qualcosa di magico: qualunque problema abbia, il bambino si rifugia nella bambola, nel pupazzo. Per quei bambini quelle cose sono uniche, quei pupazzi non saranno mai sostituibili. Giorni fa è venuta da me una ragazza di una 30ina d’anni con il fidanzato, e quella ragazza mi ha confessato di non poter vivere senza i suoi due bambolottini. Non dico che sia normale, dico solo che è un po’ l’esagerazione di un tipo di affetto molto comune”.

Non voglio sembrare romantico, non sia mai. Voglio solo dire che certe volte mi accorgo di essere cresciuto un po’ troppo, e me ne accorgo quando penso che il mondo sia diventato sostituibile. Quando mi accorgo di pensare che ci si abitui alla perdita di tutto. Ecco, io non lo so se sia davvero così, però so che trovare delle persone che vivono nella direzione opposta mi fa ancora un po’ di tenerezza. Io i miei pupazzi li ho persi quasi tutti, e non spenderei comunque una lira per ricostruire il braccio a una tartaruga ninja. Ma, forse, a chi non le ama le bambole sanno comunque insegnare che esiste una dimensione dove non c’è bisogno che tutto finisca.

Chapeau!

 

La Clinica delle Bambole | sito

Stefano Pontecorvi

scritto da

Questo è il suo articolo n°64

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