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Bagaglio in eccesso

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Dovrebbero avvertirci quando le compriamo, le valige. Dovrebbero dircelo che, anche se ci sono le ruote, il peso non scompare. Viene solo mascherato dall’illusione dell’agilità delle due ruote motrici (o quattro, quasi fosse un SUV). Quando ho deciso di partire l’ho fatto senza pensarci su troppo a lungo. Ho schiacciato, ammassato e compresso in poco più di due chiusure e centimetri quel poco di vita che riuscivo a trascinarmi dietro. Ho chiuso tutto e sono salita sul primo treno. Non si può nemmeno dire che io abbia inseguito un sogno. Ho accettato un lavoro, ho lasciato la dimensione che mi ero costruita in poco meno di due anni e tra sacchetti, maglioni di lana e piccole borse da sera ho chiuso la mia vita. Ho ipotecato la mia felicità in un cappotto lungo e di colore chiaro, ho barattato i miei desideri con un contratto a progetto.

Golden Stairway NYC di Michael Eastman

Il primo giorno di lavoro è stato in puro stile cinematografico d’oltreoceano. Nebbia invernale, mani che si aggrappavano ai passanti, scale mobili troppo lente che diventavano improvvisamente troppo veloci quando arrivavo in cima, odore di ferro, di fretta, di dopobarba e profumi vanigliati, che bucano le narici, anche se hai il raffreddore da cambio di clima, figlio del trasloco, cugino di quella campagna lasciata scorrere fuori da un finestrino. Come da copione sono arrivata troppo presto, ho annusato l’aria, mi sono guardata intorno, ho spalancato gli occhi incuriosita e, al contempo, intimorita da questi palazzoni troppo grandi, con le loro vetrate troppo lucide e quei tornelli, il lasciapassare per l’inferno. Sì, lo so, molti pagherebbero per stare al mio posto. Ma siete davvero certi di quale sia il vostro posto? Perché io non lo so. Non ci ho mai pensato sul serio. Ho studiato, mi sono appassionata, ho divorato manuali e dispense con fame bulimica, ho letto, citato, completato, sofferto e sognato su quei libri che mi hanno accompagnata in questi cinque anni. Credevo che questo momento non sarebbe mai arrivato e invece, puntuale come il più famoso stereotipo sugli svizzeri, è arrivato. Il momento in cui devi scendere a compromessi, in cui alla teoria segue la pratica. Peccato che di questa famosa pratica non si trovi traccia nei libri che appassionatamente ho sottolineato.

Traffic Light, Lisbon di Michael Eastman

Va bene, scendo a compromessi, sono pronta, lo voglio il badge, e anche l’email aziendale e gli statini da compilare. Mi prendo le case degli amici, gli asciugamani da infilare frettolosamente in valigia, perché puntualmente scade il termine ultimo per pagare il canone del divano su cui dormo e ricomincio. Risalgo in metropolitana, di nuovo quei colori e quei nomi altisonanti da unire come nei giochi del La Settimana Enigmistica, sperando che ne venga fuori un disegno, che non arriva mai.
Ma non provateci a vendermi di nuovo la formula della valigia leggera come una piuma e facile da trasportare come una lunch box bio-veg, perché non vi credo più. La vita in una valigia non è mai leggera. E per quanto tu possa essere disposto a rinunciare ai tuoi libri, ai tuoi feticci e ai tuoi ricordi, non saranno gli oggetti che comprimi dentro quella maledetta scatola con le ruote ad essere pesanti. No, non sono loro il problema. Sono le aspettative che i tuoi vent’anni fanno scendere in piazza ad ogni nuovo inizio a far lievitare il peso della tua valigia. E sì, dammi pure del Lei, ma aiutami a sollevarla. Perché i sogni pesano. E le delusioni pure. E nella mia, di valigia, ce ne ho fatte entrare pure troppe di cose.

Giuliana Pizzi

scritto da

Questo è il suo articolo n°28

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