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Beans | La lingua universale di James Blake in The Colour In Anything

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The Colour in Anything è comparso prima sui muri sotto forma visiva e poi è arrivato alle orecchie. Sinestetico, insomma.

Ha scelto di manifestarsi proprio nei giorni dell’oscurantismo dei profili social dei Radiohead,  mentre il mondo intero parlava di Lemonade di Beyoncé e le femministe oltranziste ci vedevano un chiaro rimando a Pipilotti Rist, riducendone notevolmente la portata mediatica.

 

 

Ciononostante, il nuovo album di James Blake era tra le uscite più attese della stagione. E, proprio come qualcosa che si aspetta a lungo, alla fine, è arrivato. Di ascolti ce ne sono voluti vari, perché l’album è diverso dalle precedenti produzioni. Meno sporco rispetto all’ep Air & Lack Thereof, dove i bassi vibranti prendevano direttamente allo stomaco e il cantato era lamentatio. Era anche il 2009 però e pochi si sono accorti di quell’ep. Poi è arrivato Limit To Your Love nel 2010, seguito dall’album omonimo del 2011 e ha colpito nel segno. “There’s a limit to your love like a waterfall in stop motion, like a map with no ocean”, cantava Blake (coverizzando Feist). Mancava ancora qualcosa, ancora un tassello fuori posto. Però che grande pezzo a suggellare gli accordi da letto di molti di noi.

 

The Colour In Anything

 

Calibrato, ritmo giusto, dolcezza necessaria, un vero e proprio incontro galante di sonorità elettroniche e cantato. Le cose sono cambiate con Retrograde del 2013, il pezzo più trasmesso nei locali berlinesi. Si poteva sentire ovunque, dalle hamburgerie ai Kaffee-Kinos, non c’era posto in cui non si sentisse la voce diafana di James Blake con quel cantato rarefatto, coperto dalle sirene. Con quel ritmo impossibile da non tenere tamburellando col cucchiaino sul bordo della tazzina. Overgrown (2013) invece, album di elettronica colta, da meditazione e ascolto notturno, ha sancito il successo di James Blake. Il modus operandi ormai scuola, fatto di basi secche, precise e ben assestate e il cantato in loop l’hanno reso il fenomeno che ha fatto aspettare, con pazienza e ostinazione, il nuovo prodotto dell’enfant prodige, che finalmente è arrivato. The Colour in Anything è diverso. È un album docile, ammansito, che vira verso un altro tipo di pubblico, verso un filone pop alla David Byrne, d’essai eppure più immediato e più accessibile.

È un album che prende, perché James Blake la parla bene la lingua delle note, la sa usare per suscitare le emozioni che dice lui, ma lo allontana un po’ dalla nicchia che lo vedeva deus ex machina della nuova elettronica. Se prima Blake aveva quella notorietà in un certo filone culturale aka hipster, con The Colour in Anything si sforza di parlare una lingua che tutti capiscano, senza che questo significhi appiattimento o caduta di stile. Si parla sempre di Mr. Blake, eh. L’album alterna serenate contemporanee che si fanno subito soundtrack per i viaggi in metro – come f.o.r.e.v.e.r., Waves Know Shores e My Willing Heart – a pezzi in cui riconosciamo il marchio di fabbrica che ha conquistato il pubblico illo tempore I Hope My Life, primo fra tutti. È un nuovo James Blake questo. Ha un nuovo abito, frequenta altri giri, probabilmente piacerà anche a quelli che prima non sapevano nemmeno chi fosse. E chi l’ha detto che sia per forza un male?

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Noi ascolteremo ogni beat, sentiremo ogni singola nota
e magari ci facciamo scappare un Beans.

Giuliana Pizzi

scritto da

Questo è il suo articolo n°28

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