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FIRMA BORESTA

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Accadde nel 1999. La Biennale di Venezia, quell’anno fu l’edizione di Harald Szeemann, “soppresse” il Padiglione Italiano, che confluì nella mostra generale, inglobata nel progetto del Direttore, esteso dalle Corderie fino agli spazi dell’Arsenale. L’Italia, paese ospitante l’evento, perdeva la possibilità di concorrere al premio assegnato al miglior Padiglione ma, cosa più importante, sembrava definitivamente destinata ad accettare il peso storico di una tradizione che lega il nostro paese ad un luminoso passato artistico, cui fa da contralto quella difficoltà, riscontrata in diversi campi, non solo culturali, di farsi driver di innovazione. Nel 2005 la protesta. Una lettera, aperta alla firma di quanti più possibili sostenitori – realizzata con la collaborazione di differenti associazioni culturali, curatori e critici d’arte – venne indirizzata al Presidente della Fondazione della Biennale di Venezia Davide Croff. Si richiedeva specificatamente la necessità di una rappresentanza nazionale e l’istituzione della figura di un Commissario al quale affidare il Padiglione Italia. In mezzo a tutto questo la richiesta apparentemente controcorrente di Pino Boresta. Artista provocatorio, diretto e sincero, nello stesso anno scrisse “di un’italietta contemporanea” mediocre, in cui l’animo della rappresentanza sarebbe stata invalso a fronte di un sistema dell’arte che fatica a premiare chi davvero meritevole di esserlo. Chiedeva infine di non sottoscrivere il precedente appello e, al contrario, firmare quello che avvalorava la sua stessa produzione, più che qualificata per concorrere alla Biennale medesima. L’ultima biennalità ha dimostrato tuttavia che a nulla è valsa la pretesa di Pino Boresta, a dispetto di un Padiglione Italia che, con tutte le critiche di contorno, è comunque tornato al suo posto. Ma Boresta persiste.
E da così via ufficialmente al suo secondo tentativo: “Firma Boresta” è una campagna di firme in favore della sua partecipazione alla Biennale prossima. Questa volta, alla posta elettronica, preferisce fin da subito la Piazza reale, quella di Nostra Signora di Guadalupe. Per la tradizionale agorà mostra un’antica predilezione, a cominciare da quegli interventi sul suolo urbano che sono la natura più spiccata della sua espressione artistica. Adesivi su cui campeggiano le sue smorfie o piccoli Documenti Urbani Rettificati sono i due esempi più significativi della sua irriverenza. Boresta sembra voler rispolverare l’eredità di un Marcel Broodthaers nel momento in cui sceglie l’arte per farne vettore di consenso personalistico, quando l’artista belga ne faceva veicolo di approvazione culturale aggirando le istituzioni ufficiali e, anzi, emulandole, facendone il verso. Come non fare allora del progetto di Boresta una lettura dissacrante delle ultime tendenze del fare politica, dalla partecipazione locale ad un’interazione vis a vis con i firmatari che, vista la sede inusuale dell’evento, si presuppone poco abbiano a che fare con le questioni di “inclusività” nel sistema dell’arte contemporanea. A seguire una seconda parte dell’evento verrà inaugurata negli spazi dell’associazione: “Net art No-Logo C.U.S.” come estesa visibilità del marchio, l’ostentazione del proprio personalissimo brand. Pino Boresta intreccia il resoconto visivo di uno dei suoi interventi “Cerca e usa la smorfia” (C.U.S.) ad alcuni brani tratti dal saggio “No Logo” di Naomi Klein “bibbia del movimento anti globalizzazione”. Dal cittadino che firma la sua protesta al cittadino che visita il sito in cui il progetto No-Logo C.U.S. continuerà ad esistere, Boresta non lascia fuori nessuno.
Chiara Li Volti

Il gran capo

scritto da

Questo è il suo articolo n°3459

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