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Il fotogiornalismo narrativo | Intervista ad Andrea Baldo

Da qualche tempo, guardo con sospetto la bellissima e candida mozzarella di bufala adagiata nel piatto. E, per la verità, sono piuttosto diffidente anche con insalate e pomodori, per non parlare delle zucchine. Ma, a quanto pare, non sono l’unica persona a sedersi a tavola chiedendosi che cosa ha nel piatto. Andando avanti, potrei raccontare altri mille momenti della giornata durante i quali mi domando “cosa respiro/assumo/ingerisco?”. Eppure, è tutto inutile e, per di più, questa situazione l’abbiamo voluto noi. Tutto ciò non denuncia solo uno scarso senso di autoconservazione e di sopravvivenza ma anche uno scarso senso estetico. Quello sull’ambiente e sul biocidio è un discorso che abbiamo imparato a conoscere bene negli ultimi tempi, tanto che non si capisce più dove comincia il discorso da autobus e dove finisce quello da inchiesta giornalistica.

 Toxicity

Andrea Baldo, fotoreporter napoletano che conosce il problema da vicino, ha proposto una mostra di approfondimento. “Toxicity”, la personale da poco terminata alla galleria 1Opera, è una specie di zoom che ci proietta direttamente nella cosiddetta “terra dei fuochi” (grazie, Saviano, per aver etichettato l’ennesimo scempio). Per capire meglio di che si tratta, ne parliamo proprio con lui che, intanto, ha cambiato totalmente latitudine. Quando ci rivela di essere un tipo di poche parole non ci stupiamo affatto e, tra una domanda e l’altra, impariamo a cogliere le sfumature del suo tono di voce, che sottolinea il senso delle sue risposte.

 

Siamo curiosi: come mai sei a Londra? È una “fuga” dal tuo territorio o hai preso al volo un’occasione?

 

Ho sentito la necessità di cambiare ambiente. Data la situazione del fotogiornalismo in Italia e in generale del giornalismo, ho deciso di trasferirmi a Londra alla ricercare nuove opportunità. Conoscere la situazione italiana a livello ambientale, culturale e lavorativo, non mi incoraggia a rimanere. Dopo sei anni di lavoro sul campo e altre esperienze di inchiesta, di documentazione, di insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Napoli, credo di aver preso il possibile dall’Italia, ora mi occorre dell’altro. 

 Toxicity

A proposito di ambiente, parlaci del lavoro che c’è dietro “Toxicity”. La situazione della “terra dei fuochi” non rischia di essere strumentalizzata dall’informazione?

 

L’attenzione mediatica si è concentrata solo in questi ultimi tempi. In realtà, è un problema decennale. Raccontarlo vuol dire rappresentare come, nel tempo, si siano accumulati e occultati i rifiuti. Per non parlare di tutto ciò che è invisibile o mimetizzato: quella che può sembrare una normale collinetta ricoperta di vegetazione, si rivela essere un cumulo di immondizia sopra cui le piante hanno trovato il modo di sopravvivere. Ero già stato lì precedentemente e sono tornato per raccogliere altro materiale. Ho trovato tutto identico, a distanza di anni nulla è migliorato, insomma, è stata una conferma. È difficile anche solo immaginare un modo per risanare la zona. Da dove cominciare? L’intero territorio è contaminato. Si spera che l’attenzione resti viva perché c’è un enorme lavoro da fare.

 Toxicity

Racconti una situazione irrecuperabile, senza vie d’uscita, allora perché fare fotografie di denuncia?

 

Non sono fotografie di denuncia, sono di informazione. La fotografia condensa in una sola immagine più concetti, oltre che ritrarre la realtà. Il linguaggio giornalistico, e in questo caso il fotogiornalismo, racconta situazioni e storie, azzerando le distanze. Si va sul luogo, si parla con le persone, si instaura un rapporto. E mentre la fotografia artistica si accontenta dell’estetica, io voglio ritrarre la realtà, far conoscere le situazioni, entrando negli eventi, esserne parte, testimoniare. 

 News stories

Cosa ti lega di più al fotogiornalismo?

 

Per me il giornalismo è un mestiere e il fotogiornalismo è una delle sue declinazioni. La fotografia deve avere necessariamente degli elementi che guardino all’estetica, ma ciò che mi interessa è il messaggio. Se non c’è, tutto mi sembra fine a se stesso. Ci sono dei linguaggi che funzionano maggiormente in alcuni contesti. Le masse e i gruppi, ad esempio, sono soggetti che rendono al meglio. È appagante pensare “questa cosa l’ho raccontata io”, ti dà orgoglio sapere che, anche grazie alla tua fotografia, il concetto sia arrivato più chiaramente. È molto diverso fotografare per fare una bella foto e occuparsi, invece, del giornalismo di inchiesta. Si tratta di avvicinarsi alle gente chiedendo di raccontare e bisogna entrare in contatto con loro per coglierne la gestualità e i segni del corpo. Anche con gli eventi la fotografia riesce a esprimere tutto il suo potenziale. Essere nella realtà vuol dire anche mimetizzarsi, rendersi il più possibile invisibili per non modificare nulla, per non essere un elemento di disturbo

 We want to go to school

Ma insomma, esiste questa agognata oggettività della fotografia?

 

Sicuramente esistono moltissimi modi con i quali contraffare un’immagine, forzando una situazione per avere la foto desiderata, ma non è il mio caso. Il fotogiornalismo non deve falsificare ma raccontare quello che c’è. A volte serve pazienza, bisogna aspettare a lungo la fotografia giusta, altre volte bisogna essere veloci e cogliere il momento decisivo, per dirlo alla Cartier Bresson.  

 Toxicity

Tornerai in Italia?

 

Per ora credo di no.

 

 

 

Andrea Baldo | sito

Luciana Berti

scritto da

Questo è il suo articolo n°22

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