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Il gusto leggero per l’arte al Roma Contemporary

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Lo racconto: il pomeriggio del venerdì quando ho progettato di andare al Macro Testaccio per fare un bell’articolo sul Roma Contemporary, me l’ero immaginato diverso. Mi guardavo la mano assassina che avrebbe scritto di impenitenti radical chic, di romani che facevano finta di parlare milanese e di pantaloni a sigaretta ultralight. Il vendicatore del romanticismo. Lo stragista delle superficialità.

 

 

Il sabato ci sono andato e non ci è voluto molto perché quella mano mi si ammosciasse. Per carità, può darsi benissimo che certi tipi non escano con la pioggia o che, di sabato pomeriggio, abbiano l’aperitivo obbligatorio. Un esempio: c’erano bambini, in un contesto che credevo odiasse così tanto la razza umana da essersi prodigato oramai da tempo per estinguerla.

 

 

Le mie aspettative erano a pezzi; le condivisioni Facebook del mio articolo si rivelavano inaspettatamente lontanissime, gli status di Jovanotti avrebbero continuato, impenitenti, ad imperversare. Mi sentivo come un cronista sportivo inviato a raccontare il campionato abruzzese di bocce: un apologeta della normalità. Questo è il preambolo. La storia vera e propria inizia quanto decido di smetterla di pensare a cosa dovrebbe essere una fiera dell’arte, quando inizio piuttosto ad osservare com’è.

 

 

La prima cosa interessante è che ad una fiera dell’arte vedi un casino di opere di artisti differenti e le vedi accostate come se fosse la cosa più normale del mondo. Cioè, che non si sa cosa sia l’arte contemporanea  è cosa abbastanza comune. Ma stare in un posto in cui uno scheletro umano, foto segnaletiche di pedofili, matite conficcate nei muri, tele rigonfiate, palloni da calcio scoppiati come uova marce (ahah) e casse da trasporto da cui provengono strani colpi stanno accostati come al banco frutta le mele e le arance, beh, quantomeno un po’ di spaesamento te lo porta. E anche quando ti capita di sentire che quelle cose costano 20.000 euro, cioè come un intero stipendio mensile di Renzo Bossi, o affittare Nicole Minetti per una festa patronale.

 

 

La seconda cosa interessante è che vedi un sacco di persone girovagare ed osservare e ridere e meravigliarsi di quelle cose in un modo che difficilmente puoi incontrare in un’altra situazione. Nessuno finge risposte facili eppure pochissimi cercano (con risultati ridicoli) di apparire eccessivamente a loro agio. Difficilmente ti capita di sentire i commenti da turista di passaggio al Guggenheim (‘bah, e ci prendono per culo e si fanno pure pagare il biglietto’), eppure pochi tentano di rinnegare quell’essere ‘fuori luogo’ che è parte essenziale della riuscita di un’opera d’arte.

 

 

La terza cosa interessante è che, nel cortile esterno del Macro, oltre a due biciclette schiantate al suolo c’era una gru il cui braccio reggeva una tavola di legno, più o meno ad una ventina di metri dal suolo. Su quella tavola c’era una donna con la faccia da coniglio, tutta bianca, pericolosamente vicina all’orlo. Quella donna-coniglio ti guardava con aria davvero strana, con una mescolanza di rancore e dispiacere. Quella donna coniglio bianco era un qualcosa di molto vicino ad un sogno ed una purezza che ti chiedeva che cazzo avessi fatto per costringerla a rincorrerti. Che ti diceva che quando i sogni sono costretti a scendere sulla terra, quelli scendono già morti. Beh, mi piace pensare che sapere ascoltare l’arte, e sapere leggere in tempo l’espressione della donna-conglio, sia un modo per evitare che i sogni si sfracellino al suolo. Per fare in modo di alzare il culo ed iniziare, noi, a salire.

 

 

P.s.: (Ad onor del vero credo che tante persone fossero là pure per comprarsi qualcosa per il salotto nuovo. Era una fiera e non pensiate che abbia sottaciuto l’aspetto commerciale perché sono un paraculo, e voglio un altro pass per l’anno prossimo. Il fatto che quel coniglio-bianco guardasse un mercato dell’arte la dice lunga. Il fatto è che io quest’aspetto commerciale non l’ho visto, i collezionisti non li ho riconosciuti e comunque, da quando è in voga in design Ikea, credo che la gente riesca ad arredare salotti in maniera più economica).

P.p.s.:

la donna-coniglio era un’opera di Franco Losvizzero. Lo dico perché ho avuto modo di conoscerlo, e lui mi ha chiesto cosa pensassi della sua opera. In quel momento avevo il pass per la stampa in tasca, quindi non c’era il rischio mi avesse scambiato per qualcuno di serio. Tutto questo per dire che, al contrario di molti artisti, lui mi ha dato l’idea di stare lì sotto insieme a tutti noi altri, a sentirsi colpevole nei riguardi della donna-coniglio almeno quanto noi. E forse questa è la quarta cosa interessante.

 

 

Stefano Pontecorvi

scritto da

Questo è il suo articolo n°64

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