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Là dove la sanità funziona, l’ospedale delle bambole a Napoli

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Se siete degli assidui frequentatori del centro storico di Napoli, avrete sicuramente notato la presenza di una piccola bottega, sita in San Biagio dei Librai. Una bottega inusuale, perché il tuo interno è ricco e colmo di bambole, statue e cavallucci a dondolo, collocati in ogni angolo della stanza. Le bambole sono le padrone di tutta la simpatica bottega. Le loro teste, manine, vestiti, occhi si ritrovano sugli scaffali o all’interno di vetrinette per essere utilizzati nell’aggiustare le bambole e renderle di nuovo belle e perfette come appena comprate. Tiziana, figlia del dottore delle bambole e discendente di una famiglia di medici, che da ben tre generazioni ridonano lo splendore e soprattutto l’anima ad oggetti di cui noi, uomini, donne e bambini, siamo particolarmente legati, ci accoglie nel suo laboratorio. Certamente il luogo impressiona un po’, ricordandomi quel vecchio film degli anni ’80, dal titolo “Dolls” in cui bambole possedute dal demonio, incutevano timore con i loro occhi rosso fuoco, ma l’aurea che circonda la figura di Tiziana, la sua disponibilità, passione che mette nel suo lavoro, trasforma la sala operatoria nel posto in cui si ritrova la salute e la guarigione. Accompagnata dalla mia cara amica Lia, nonché fotografa d’eccezione, veniamo accolte con un sorriso dalla dottoressa e dalla sua assistente e comincia un’interessante chiacchierata.

foto di Lia Zanda

Quando nasce l’ospedale delle bambole?

L’ideatore dell’ospedale è il mio bisnonno, che inventò un lavoro inusuale. Lui, scenografo dei teatrini, aveva questo laboratorio a San Biagio dei Librai, proprio dove adesso c’è il negozio. Qui il mio bisnonno, in camice bianco, si metteva a dipingere le scene teatrali che quasi sempre si rompevano perché di carta. Capitava spesso che poi le marionette si guastassero o perdessero un braccio nelle battaglie di scena, e lui o rimetteva la manina persa o aggiustava la corazza e si ritrovò, dopo un bel po’ di tempo, con tanti pezzi in negozio. Un giorno si recò una signora con una bambola in mano. Era il 1899 e le bambole dell’Ottocento erano bambole importanti, di porcellana. Questa signora che lavorava presso una famiglia nobile si recò da mio nonno, dicendo di aver fatto un guaio e chiedendo il suo aiuto. Il mio bisnonno gliela aggiustò e venne bene. La signora, proprietaria della bambola, non si accorse mai di questa cosa e la cameriera, che portò la bambola ad aggiustare, soddisfatta del lavoro, nell’andarsene disse a mio nonno: “Voi siete proprio no dottore”. Da lì iniziarono a venire varie persone, evidentemente la signora aveva sparso la voce. Mio nonno cominciò ad appendere la bambole e a distinguersi con il suo camice bianco. Capitò così che una signora, passando per il negozio, disse: “Mamma mia! Che impressione sto posto, mi pare proprio no spidale”. Il mio bisnonno, che sentì, subito prese il colore rosso e su un cartello scrisse “ospedale delle bambole”. Una trovata geniale non solo del mio bisnonno, ma della gente del posto. Geniale ancora oggi, perché l’interesse ancora “acchiappa”.

Dove trova i materiali per aggiustare e vestire le bambole?

Mio nonno Michele sapeva dove trovare il materiale. Inoltre lui ha cominciato ad instaurare rapporti con i produttori di bambole dei Paesi Europei, dai quali comprava i pezzi di ricambio. Io mi sono ritrovata con un bel po’ di materiale in magazzino. Ciò che ci rende originali è che noi facciamo un restauro con oggetti di cento anni fa. Questa è la cosa che rende prezioso e unico il nostro lavoro. Gli abiti li fa mia madre, collezionista e moglie del medico delle bambole. Le ama e le veste con una passione incredibile. Lei le veste, io le restauro. Ho fatto un corso di restauro, ma sono comunque una ragazza di bottega. Fondamentalmente ho imparato dalla tradizione e dall’esperienza del mio bisnonno, nonno e papà. Io sono il risultato di tre esperienze e credo che un lavoro del genere possa solo migliorare. I miei figli avranno sempre più esperienza. Anche io sto lavorando su giocattoli nuovi, su cui mio padre non ha mai lavorato. Tutte le esperienze si vanno sommando.

foto di Lia Zanda

A tal proposito, crede che i suoi figli continueranno il suo lavoro?

Io me lo auguro. Finchè ci sarà gente che ha un ricordo a cui tiene particolarmente ed è innamorata dei propri oggetti, allora il lavoro continuerà. Io lavoro per gente comune, non collezionisti, che ha un’età compresa, come diceva papà, tra 0 e 99 anni, e che sono legati ad un oggetto qualsiasi esso sia e qualsiasi sia il suo valore. Chi non ha cura degli oggetti, qui non può entrare. Il valore dell’oggetto è dato dall’affetto che tu gli dai, donandogli quasi un’anima.

Qual è stato il lavoro che le ha dato più soddisfazione?
Ci sono tanti lavori che mi hanno dato soddisfazioni, una volta terminati. La soddisfazione più grande me la dà il cliente quando viene da me quasi in lacrime con la sua bambola, chiedendo il mio aiuto, e poi ritorna ringraziandomi per il lavoro fatto. È bello sentirsi dire che la bambola è più bella di prima o che appare come nei suoi ricordi. La mia passione è regolare e speciale per tutti i miei clienti. Per me è normale smontare le bambole e rifarle belle. Mi accorgo dell’effetto finale e del cambiamento solo quando le persone me lo fanno notare.

foto di Lia Zanda

Che cos’è il morbo della bambola triste e quali sono i sintomi?

Il morbo della bambola triste è caratterizzato dal fatto che la bambola caccia una lacrima nera dall’occhio, che esce non per miracolo, ma a causa di un’agente chimico che deteriora e deforma le bambole. C’era un’azienda italiana che si chiamava Leira che produceva queste bambole, utilizzando un particolare agente chimico. Nel giro di pochi anni queste si deterioravano e si deformavano. Il primo sintomo del morbo è il fatto che viene fuori una lacrima nera dall’occhio, perché si crea una condensa all’interno della testa. Siccome il meccanismo degli occhi è fatto anche con del ferro, si crea dell’acqua che arrugginisce il ferro ed esce dall’occhio come una lacrima. Da lì la bambola comincia a degenerarsi ed è l’unico momento in cui noi non possiamo fare nulla per aggiustarla. Solo se preso in tempo, il morbo può fermarsi, altrimenti riconsegniamo la bambola al proprietario.

foto di Lia Zanda

Lei ha una bambola da cui non si è mai separata?

Io ho solo una bambolina che da piccola mi piaceva tantissimo. Ho avuto tantissime bambole e mio padre che andava alle ferie me ne portava tante, quindi non ho avuto il tempo di innamorarmi delle bambole. Poi un giorno mio padre tornò dall’America con una bambolina carinissima, con il ciuffetto di capelli biondo, di gomma e molto semplice. Io la tenevo sempre con me, soprattutto quando facevo il bagno. Questa è stata l’unica bambola che mi sono conservata perché apparteneva ad un momento di gioco molto libero. Le altre bambole, troppo rigide e meccaniche, non mi gratificavano. Evidentemente la bambina sceglie sempre la bambola o il giocattolo a cui è legata da un punto di vista affettivo. Con la mia bambolina ci giocano ancora oggi i miei figli.

foto di Lia Zanda

Tiziana Grassi e la sua famiglia mettono nel loro lavoro, non solo una forte passione, ma un amore coinvolgente. Sentirla parlare e vedere sua madre coma accarezza le bambole, è stato particolarmente gratificante. Solo l’attenzione che si riversa nel lavoro può rendere l’oggetto unico. Inoltre visitando il laboratorio è stato possibile notare come ogni bambola avesse delle particolari caratteristiche che la rendevano quasi viva. Solo l’oggetto ricco di ricordi e di affetto persiste nel tempo e le bambole antiche e non continuano a vivere nelle mani di pazienti e abili artigiani.

Foto di Lia Zanda.

Stefania Annese

scritto da

Questo è il suo articolo n°51

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