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La pancia jazz di Bologna

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A Bologna capita che giri per la città e ti ritrovi sottoterra, non nel senso che muori e ti seppelliscono, ma piuttosto che si tratta di una città che sotto la sua superficie nasconde posti segreti, corsi di fiumi, labirinti e luoghi che uno neanche se lo immagina. Qua potrei iniziare un’allegoria che non finisce più tra i sotterranei di questa città e la scena underground bolognese,  ma non ne ho voglia e allora vi racconto quello che mi è successo. Qualche tempo fa mi è capitato di ritrovarmi sotto il suolo della città in una cantina jazz. Mi spiego meglio,  in via Cesare Battisti, 7 c’è un portone di ferro che,  se ti trovi a passare il venerdì sera e bussi al campanello, t’investe un’ondata di note jazz.  Si tratta della mitica cantina jazz che fin dagli anni 50 ospita le esibizioni della DOCTOR DIXIE JAZZ BAND e chiunque vi entra è considerato un gradito ospite. E allora ci sono dei divani e un palchetto, e la gente (in genere jazzofili oppure studenti o chi vuole fare il figo con la propria donna portandola in un posto che dovrebbe incantarla quantomeno) si porta delle bottiglie da casa e può stare seduta a bere e intanto usare almeno una delle proprie orecchie come una tavola da surf per saltere sulle onde della musica.
È o no uno scenario alla Stefano Benni (il quale è di Bologna e sicuramente sarà stato ispirato da questo posto)? D’altronde di gente importante di qui ce ne è sempre passata (se non ci credete guardate questo link: http://www.jazzitalia.net/articoli/doctordixiejazzband.asp, e scoprirete, tra le varie cose, che Pupi Avati ha preso qui ispirazione per vari film, soprattutto jazzisti famosi che fin dal dopoguerra bazzicavano a Bologna. Voi vi chiederete perché proprio qua ed io vi rispondo che questa città ha avuto il merito di organizzare fra gli anni ’50 e  ’70 uno dei festival jazz europei più importanti dove veniva gente come Louis Armstrong, Duke Ellington, Earl Hines, Dizzy Gillespie, Theleonius Monk, Miles Davis, il Modern Jazz Quartet, Chet Baker e John Coltrane (mica Gigione e la sua pianola). Non ho finito l’elenco perché qui sono passati altri mostri sacri della musica afroamericana come Woody Herman, Ella Fitzgerald, Stan Getz, Art Farmer e B.B. King. Voi increduli ancora vi chiederete come ci sono riusciti ed io vi faccio leggere quello che dice Nardo Giardina (fondatore nel 1952 della Doctor Dixie Jazz Band):

Il jazz è una musica dirompente ed innovatrice che ha affascinato giovani e non di ogni paese divenendo, generazione dopo generazione, sempre più conosciuta e seguita da un numero sempre più ampio di appassionati di questo nuovo linguaggio che, sovvertendo ed invertendo la scala di valori da sempre codificata e accettata nella musica dotta europea, aveva messo al primo posto il ritmo (…), al secondo l’armonia e, in ultima posizione, la melodia. Un simile tipo d’impostazione chiaramente in antitesi con la nostra anima latina e mediterranea, unitamente all’altro elemento liberatorio costituito dalla possibilità lasciata ai solisti di improvvisare a loro piacimento, fece sì che il jazz affascinasse e coinvolgesse non solo per la novità dei suoni e dei ritmi, ma anche perché simbolo concreto di contestazione e ribellione a schemi ormai troppo rigidi e frenanti. Ciò fu inteso spesso (…) oltre che da un punto di vista strettamente musicale, anche con significati ben più ampi, di tipo sociale e politico. (…)”.

Dopo queste parole, pensate un po’ a cosa era questa città in quegli anni. Fatto? Vabbè, allora vi lascio ancora a delle parole di Giardina:

Bologna è da sempre città cosmopolita e provinciale, contando alla pari tradizioni dotte e contadine. Città della tradizione, è stata in verità da sempre pronta ad accogliere e tollerare tutto quanto avesse sapore di vera innovazione. Città universitaria, da sempre avvezza all’internazionalismo e alla presenza di stranieri, a lungo sotto il dominio papalino, che ha temprato nei secoli il sanguigno temperamento dei bolognesi inducendoli alla nota “bonomia”, che nulla però toglie alla propensione istintiva per le passioni violente e alla fervida immaginazione di un popolo concreto e al contempo raffinato (…). Tutto ciò (…) come risultato di un compromesso tra il potere costituito e la tendenza alla ribellione, fra il conformismo e l’assoluta libertà inventiva, con sempre presente un amore sviscerato per i propri spazi urbani, portici, piazze, chiese (…). E’ forse questa strana e un po’ folle caratteristica di edonismo e di massima libertà della fantasia che ha fatto sì che a Bologna il jazz abbia incontrato una fortuna duratura nel tempo”.

Esco fuori dal locale e penso che questa città è tremenda: non fai in tempo a imparare un po’ come funziona che subito ti prende alla sprovvista con cose nuove che rivoluzionano la concezione che ti eri fatto di lei. Questa cosa ti fa pensare. E allora che penso? Soprattutto che è una figata stare in una città così, che ti sfida ad avventurarti nei suoi anfratti fisici e culturali come una donna bellissima e ammaliatrice che t’invita nelle sue stanze segrete. Quindi se siete a Bologna e cadete in una botola, se vi ritrovate nel ventre della città, non bestemmiate subito perché potrebbe essere interessante.

Giuseppe Carchia

scritto da

Questo è il suo articolo n°4

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