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L’apocalisse raccontata da Gianni Tetti

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È trascorso quasi un anno dall’ultima pioggia. Un caldo asfissiante si è abbattuto sulle strade di una piccola provincia e sembra alimentare il folle seme annidato nei corpi dei cittadini che la popolano, e che li spinge a compiere gesti folli ed inspiegabili. Una semplice coincidenza o il terrificante preludio dell’apocalisse che sta per abbattersi sulla Terra, e che ha scelto la Sardegna come luogo dove dare inizio alla fine?

A raccontarci Mette pioggia, il romanzo pubblicato da NEO. Edizioni, è il suo autore, Gianni Tetti.

Gianni Tetti
Gianni Tetti

 

Dopo la raccolta di racconti “I cani là fuori”, torni in libreria con un romanzo apocalittico ambientato in una piccola provincia sarda. Com’è nata l’idea che ha dato forma a “Mette pioggia” e perché hai scelto di ambientarlo in Sardegna?

 

“L’idea è nata da un piccolo racconto che avevo scritto tre o quattro anni fa e che poi era stato pubblicato su Frigidaire. Il racconto si intitola “Mia madre gialla” e, sostanzialmente, parla di una madre che si sottopone ad un’operazione chirurgica che non va a buon fine. Lei sta molto male, è diventata gialla agli occhi del figlio, e pare non farcela. Preso dalla disperazione, il figlio della donna inizia ad immaginare vari modi in cui potrebbe finire il mondo, e si chiede perché sia successo a sua madre e non agli altri, a qualsiasi altra persona. Ho iniziato a pensare a “Mette pioggia” a partire da questo piccolo racconto, poi il tempo, condito da qualche vicissitudine, m’ha aiutato a chiarire le idee e a trovare le motivazioni per scrivere la storia. Qualsiasi storia scriva, fosse anche un western, la ambienterei in Sardegna, perché è il luogo che conosco meglio, ne conosco meglio la gente, le facce, gli odori. E poi, dato che solitamente il genere di storie tipo “Mette pioggia” le ambientano sempre a New York o a Washington e finisce con il presidente che prende l’Air Force One, col generale che grida “fuoco!” e con l’eroe che salva il mondo, mi divertiva l’idea di ambientare il libro in un luogo periferico che conosco fin da bambino, tra gente apparentemente normale che non capisce niente di quello che gli accade attorno e, quando lo capisce, non pensa a salvare il mondo ma a salvare la pelle, costi quel che costi”.

 

Nella tua biografia si legge che sei specializzato in tecniche di narrazione per cinema e tv, e nel corso della lettura questa tua formazione è evidente. In cosa si differenzia la scrittura cinematografica da quella letteraria?

 

“La prima differenza che mi viene in mente è il destinatario: una sceneggiatura è destinata ad un regista, a un produttore, a degli attori e, più in generale, a una serie di persone che, a vario titolo, dovranno seguire la lavorazione di un film; un libro è destinato ad un lettore che ne farà quel che vuole, in tutti i sensi. La seconda differenza è di metodo: quando scrivi un libro sei comunque solo; quando scrivi una sceneggiatura ti devi sempre rapportare con qualcuno o qualcosa di esterno a te, per esempio il regista, il produttore, o i limiti produttivi. Tutto questo influisce molto sul tuo modo scrivere e sulla scelta del cosa scrivere e del come raccontarlo. La terza differenza è tecnica: nella sceneggiatura immagine e azione sono tutto; in letteratura c’è molto altro, puoi essere contemplativo, puoi scrivere solo ed esclusivamente pensieri astratti senza che il protagonista si alzi dalla poltrona. Ci sono tante altre differenze, ma mi fermerei qui. E poi c’è un punto in comune fondamentale: si tratta sempre di raccontare una storia”.

 

La trama di “Mette pioggia” si consuma nell’arco di una settimana. A partire dal lunedì, sino ad arrivare alla domenica, ogni giorno della settimana fa da cornice a ciò che accade nelle vite dei diversi personaggi. Storie apparentemente lontane tra loro danno forma ad un vero e proprio labirinto narrativo. Quali sono state le difficoltà affrontate nel corso della stesura del romanzo, e cosa invece ti è risultato più semplice?

 

“È stato semplice scrivere la prima versione, quasi di getto, in pochi mesi. È stato più difficile affrontare le varie riscritture che si sono succedute nell’arco di quasi due anni. Avevo ben chiara in mente la struttura da dare alla storia, creare il “labirinto narrativo” di cui parli era nelle mie intenzioni fin dall’inizio, anche se lo vedevo più come un vortice, una spirale che accelera progressivamente man mano che ci si avvicina alla fine, per poi dissolversi sotto la pioggia. Poi a me capita sempre una cosa: quando finisco di scrivere una cosa mi dimentico di quanto è stato difficile, mi sembra sia stata una passeggiata, poi inizio un nuovo progetto e faticosamente inizio a ricordare che non è mai così semplice”.

Mette Pioggia_ziguline

I personaggi che danno forma al racconto sembrano del tutto inconsapevoli del male che si annida nei loro corpi, e le vicende che li vedono coinvolti non sono poi così lontane da quelle dei personaggi che popolano la nostra cronaca quotidiana. Credi che la follia e la violenza possano essere considerate il sintomo dell’imminente distruzione che attende il genere umano?

 

“La follia mi ha sempre interessato. La follia generalizzata che c’è nel mio libro è chiaramente un sintomo di qualcosa di imminente che sta per accadere. La violenza fa parte dell’uomo. L’uomo è violenza. C’è violenza ovunque, l’affermazione di se stessi passa spesso attraverso la violenza, sia da bambini che da adulti. La guerra è una delle principali forme istituzionalizzate di violenza. Insomma, parlo di violenza perché ne vedo tanta. Ne vedo tanta perché fa parte di noi”.

 

L’ansia, la paura, l’angoscia, il dolore ricorrono continuamente nelle pagine del tuo romanzo. Perché hai scelto di fare prevalere questi sentimenti negativi?

 

“Perché penso che in tempi di crisi (crisi economica, personale, culturale) i pensieri negativi prevalgano. Nel libro è evidente che qualcosa non va, che tutti hanno perso qualcosa, che tutti affrontano una crisi. In queste condizioni prevale l’ansia, l’angoscia, la paura”.

 

Credi che il genere apocalittico sia così apprezzato dal pubblico, sia al cinema sia in letteratura, perché viviamo in una società distopica?

 

“Sono sempre stato affascinato dal genere apocalittico o ancor più post-apocalittico fin da quando, da ragazzino, guardavo “Conan” o “Ken il guerriero” in tv. È vero, viviamo in una società per molte, troppe cose, indesiderabile e dunque distopica, stiamo consumando la terra e le sue risorse, ci stiamo avvelenando, ci uccidiamo gli uni con gli altri da millenni, ma, semplicemente, credo che più che i tempi in cui viviamo, siano gli anni di libri tipo Urania, di film di Romero e di serie tv di fantascienza ad averci allenato al genere apocalittico, ad aver creato, cresciuto, nuovi lettori e nuovi spettatori”.

 

A differenza della pioggia purificatrice di manzoniana memoria, quella che si abbatte sulla tua Sardegna racchiude in sé quel valore distruttivo che ritroviamo nelle immagini disegnate dalla penna di Gabriel Garcìa Marquez. Eppure, come tu stesso scrivi, sebbene picchi la terra, questa pioggia sembra una carezza. Può la consapevolezza più tremenda, come quella della fine, racchiudere in sé un labile speranza?

 

“Sono convinto di sì. Dipende sempre dal punto di vista da cui si guardano le cose. All’inizio del libro uno dei protagonisti dice che gli schiaffi presi da bambino per punizione, in confronto alle delusioni della vita da adulto, gli sembrano carezze, eppure da bambino gli sembravano una cosa terribile; la stessa ambivalenza l’ho voluta riportare nel finale del libro: piove, piove forte, diluvia, eppure la pioggia accarezza e la terra germoglia. Ho visto villaggi di macerie in Palestina senza alcuna prospettiva che fosse diversa dal vivere di stenti, eppure non posso dire che nelle persone che ho incontrato mancasse la speranza. La fine racchiude in sé l’idea di un nuovo inizio. Non può che essere così, siamo portati naturalmente a sperare, ad aggrapparci a qualsiasi cosa, a cercare la forza di andare avanti, talvolta ingannando noi stessi”.

 

 

 

Carmen Arzano

scritto da

Questo è il suo articolo n°12

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