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McCurry guarda l’umanità al di sotto dei Big Mac

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Non mi convincono mai del tutto coloro che criticano l’attuale società massificata per il suo ridurre ogni individuo a un numero: per il suo svuotare di umanità l’essere umano e ridurlo a un portatore di carrello della spesa. Penso, infatti, che ci siano molti modi di relazionarsi agli altri, ma nella maggior parte delle nostre situazioni quotidiane la parte ‘umana’ di quelle persone non ci interessa affatto, globalizzazione o no. Delle sensazioni, dei ricordi, della presunta ‘unicità’ del postino, ce ne frega tanto quanto poteva fregare ad un soldato seicentesco del mondo emotivo del tizio a cui stava staccando la testa. E nel ‘600 la televisione non c’era e nemmeno McDonald’s. Credo, insomma, sia parte dell’esperienza umana il fatto che, volenti o no, gli altri siano un impiccio nella stragrande maggioranza delle situazioni; al pari di una pietra o di un programma di Massimo Giletti.

foto di allestimento di Tommaso Martelli

In mezzo a questa indifferenza generale, però, ci sono piccoli ritagli preziosi, rare situazioni in cui il ‘mondo’ di un’altra persona ci invade inaspettatamente. Può succedere con un innamoramento, può succedere con una confessione, può succedere con le parole o con uno sguardo. E, cosa molto importante, può succedere con l’arte: sentirsi catapultati all’interno della visione di un artista e delle ‘cose’ che, in quella visione, prendono vita. A volte, poi, queste ‘cose’ sono persone.
Ecco, la mostra di McCurry al MACRO Testaccio di Roma è un agglomerato martellante di questo secondo tipo di esperienze. Una dimostrazione lampante che l’umanità è viva, anche se seppellita sotto tonnellate di Big Mac. Innanzitutto, la disposizione: le foto sono disposte in grandi cupole di ferro disseminate nell’edificio a creare un percorso che segue la cronologia e i temi seguiti dall’artista. Infanzia, guerra, morte, religione, contraddizioni del contemporaneo si susseguono trasformando l’aspetto curatoriale dell’esposizione in un’operazione artistica a sé. E poi, naturalmente, le fotografie: all’inizio bambini, tanti e di tanti paesi differenti, che ti sommergono di sguardi che è impossibile pensare essere di pellicola. Bambini che ti accusano, bambini che sanno cos’hai fatto, bambini a cui non interessa il fatto che “tu non c’eri”, che “non è colpa tua”.

 foto di Stefano Pontecorvi

Seconda cupola, ancora bambini. Ma stavolta non ti guardano perché sono impegnati a giocare e a studiare e a cambiare i caricatori dei loro mitragliatori. Stavolta sono impegnati a dirti che loro, i bambini, sono recipienti che a lungo andare si riempiono di qualunque cosa tu gli dia: palloni o fucili. Nella cupola del gioco c’è una partita a pallone che si svolge nell’arco di un pianeta. Nella cupola della religione ci sono statue di divinità eterne che si corrodono e persone, mortali, che vivono. Nella cupola della guerra ci sono le Twin Towers, uomini carbonizzati e pozzi petroliferi che esplodendo dipingono il cielo di una bellezza omicida. E poi monaci buddisti, Venezia, i campi di concentramento, pescatori birmani, il Pakistan, l’Africa, l’Occidente: in poche parole, l’uomo. L’unico animale in grado di far vivere le cose.

 foto di allestimento di Tommaso Martelli

La fotografia di McCurry rende vive, vive per noi, delle persone che sono sì vive, ma che nella nostra quotidianità sarebbero degne della stessa attenzione dei minerali presenti su Saturno. La fotografia di McCurry rende vivi noi che sappiamo chi siamo solo in relazione a chi saremmo potuti essere. La fotografia di McCurry mostra il mondo per quello che è: un qualcosa che vive solo negli occhi di chi lo popola. La fotografia di McCurry, infine, ha una cosa che hanno tutte le vere opere d’arte: non ha senso parlarne. Occorre guardarle. Occorre viverle.

 

Per saperne di più:
stevemccurry.com
www.macro.roma.museum/mostre_ed_eventi/mostre/steve_mccurry

Stefano Pontecorvi

scritto da

Questo è il suo articolo n°64

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