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Pixel Pancho ci confessa il suo unico credo

Enrico, alias Pixelpancho, è uno street artist torinese facilmente riconoscibile per il suo particolare ed originario “marchio di fabbrica”: un robot dalle sembianze umane, un automa, un elemento che identifica e critica il genere umano pronto ad eseguire meccanicamente qualsiasi compito gli si imponga. Pixel Pancho si contestualizza all’interno di un percorso di studi sul graffitismo iniziati all’Accademia di Torino e proseguiti a Valencia nello studio delle belle arti. La città spagnola, sicuramente più libera dai soliti cliché italiani, come quello che vuole che tutto ciò che è vecchio è da ritenersi antico, ha dato numerose opportunità di sperimentazione artistica e muraria allo street artist torinese. Attualmente nel suo grande “laboratorio”, aperto da poco, Enrico si prepara per i suoi prossimi lavori. Qui riceve la mia telefonata tramite skype, dandomi la possibilità di vedere anche un progetto “in itinere”. Subito si comincia a chiacchierare e senza troppe presentazioni inizia a parlarmi di lui.

courtesy Pixelpancho

Quando è nato Pixelpancho?

 

È un progetto che è nato nel 2001dopo vari anni di graffitismo e vandalismo in strada. Diciamo che, grazie agli studi fatti, presi coscienza di ciò che volevo fare ed inventai un progetto un po’ più serio di street art che avesse come concetto principale un obbiettivo da raggiungere. Pixelpancho non è niente altro che un nome, un’entità, una persona a cui piacciono i robot con i quali vuole comunicare. Esprime ciò che è giusto far vedere. Il robot è un soggetto molto volubile e quindi lo posso utilizzare per diversi concetti, non ce n’è solo uno. È un po’ la deificazione dell’uomo stesso. Io sono nato negli anni Ottanta quando questo era il simbolo della fantascienza, il sogno e la fobia della società di quel tempo. Per l’uomo il robot è il desiderio di essere Dio, di trasformarsi in lui, è una sua creazione. È la deificazione dell’uomo. Da parte mia è un po’ una presa in giro, perché io sono assolutamente non religioso, nonostante abbia praticato la religione cattolica quando ero bambino e facilmente influenzabile con vecchi stereotipi.

 

Perché hai deciso di allontanarti dalla religione?

 

Semplicemente perché ho visto che non ci sono vie d’uscita, in quanto la religione non dà una speranza di un futuro soggettivo, mettendoti al servizio di un Signore che tu non hai mai visto e che non dà delle risposte. Io sono un essere biologico pensante, quello che facciamo è costruire qualcosa per adattarlo all’ambiente che ci circonda. Le risposte alle mille domande dovrebbero essere di tipo scientifico, perché la religione porta alla distruzione, all’appiattimento della cultura e a credere che il mondo finisca ad un certo punto e che non bisogna farci attenzione. I miei genitori ed i miei nonni sono sempre stati atei e quindi vivendo in un paesino di campagna all’inizio bisognava per forza essere cattolici, poi sono stato io a staccarmi e ad essere ritenuto un tipo strano.

 

Quando hai cominciato a fare graffiti?

 

Verso i dodici, tredici anni. Invece di andare a messa la domenica andavo per la campagna a sporcare qualsiasi elemento murario, anche pietre.

 

Quindi in paese sapevano di te?

 

Guarda non mi hanno mai criticato, però secondo me sapevano che fossi io. Ero piccolo, quindi avevo un raggio di liberazione e azione minimi, non potevo allontanarmi da casa. Non sono mai stato un vandalo e non c’era il rischio che sporcassi le case degli altri.

courtesy Pixelpancho

Poi ti sei trasferito a Torino?

 

Adesso vivo e lavoro a Torino, anche se all’inizio la città mi stava abbastanza stretta. Verso i 22 anni mi sono trasferito in Spagna, dove ho trovato grandi opportunità di sperimentare nuove tecniche e migliorarle, soprattutto per dipingere i muri. Lì è molto più accettato il graffitismo rispetto all’Italia, dove tutto ciò che è vecchio è storico. In Italia siamo fermi al Rinascimento! Nonostante i grandi artisti di adesso nel nostro Paese non esiste la professione di artista, un artista non può avere una partita iva.

 

In Spagna com’è la situazione?

 

Finanziamenti anche lì non ce ne sono. Iconcorsi sono numerosi, ma quello che avvantaggia la Spagna è che costa tutto molto meno dell’Italia. Se voglio dipingere un muro grosso con 250 euro in Spagna io ho un elevatore, un braccio meccanico per disegnare sul muro. Qui non ce la fai con i soldi, in più devi chiamare la polizia municipale e farti fare dei permessi. In Spagna no, devi solo strare attento a non ammazzare nessuno e basta.

 

Perché hai deciso di tornare a Torino?

 

Sono ritornato per facilitare i miei viaggi europei. Dato che vado spesso in Germania, Francia ed Europa dell’Est, l’Italia è più centrale della Spagna. Vivere in Spagna significa viaggi allucinanti di 2 giorni per arrivare a Berlino, soprattutto con il mio furgone dell’89, che io utilizzo per lo spostamento delle opere e dei materiali. Preferisco viaggiare su gomma e poi Torino è la mia città, mi piace il clima fresco. Sono un po’ più nordico io e poi dopo 6 anni in Spagna e tante estati di 50 gradi avevo bisogno di raffreddarmi ritornando qua.

 

Riesci a sostenerti economicamente con la street art e con i tuoi lavori grafici?

 

Con i miei lavori riesco a raggiungere un guadagno di 2/3 per la mia sopravvivenza, ma non potrei vivere solo con questo purtroppo, magari. Vivo facendo lavori da amici, al bar e a volte faccio grosse opere di decorazione esterna, un po’ di commissioni, ma spero che nel futuro ce ne siano sempre meno e ci siano sempre più miei lavori. Credo comunque che sia veramente molto difficile vivere da artista. Purtroppo la gente non capisce che il lavoro dell’artista sia un mestiere, pensa che sia una persona che fa un paio di quadri, sculture da mettere in casa. Un artista ha delle consegne, ha un calendario, deve pensare, progettare, produrre, comprare la materia prima e creare. È come se fosse una piccola industria all’interno dell’essere umano. Ti chiamano per eventi di beneficienza che a me fa tanto piacere farli, ma la mia domanda è: quando faranno eventi di beneficienza verso di noi che non guadagniamo un “cazzo di niente” al mese? Poi ci sono anche quelle aziende che sfruttano i giovani artisti che vogliono farsi conoscere senza pagarli, però è giusto che ci sia un minimo di retribuzione anche perché la vita costa. Siamo realisti: i materiali da disegno costano tantissimo.

courtesy Pixelpancho

Come ti sei trovato in Germania?

 

Ci sono molte possibilità per riuscire come artista in Germania, però 5 anni fa era meglio. Oggi Berlino è piena di artisti, grafici, pubblicitari che hanno dato vita ad un arte di tipo internazionale. Ora i tedeschi però vogliono un po’ riconquistare i loro spazi e la loro identità. Prima tutti parlavano molto di più le lingue straniere, adesso cercano di esprimersi nella loro lingua natia. In un certo senso si è diffuso maggiormente un sentimento nazionalistico. Attualmente Berlino trabocca di artisti. Per quanto riguarda la street art credo che Parigi e Londra siano diventati i nuovi capoluoghi. Sono stato anche negli Stati Uniti, lì c’è molta concorrenza e a livello artistico sono molto bravi.

 

Progetti futuri?

 

“Humanoid”, alla Four Roses Gallery di Milano il 25 marzo, poi il l8 di aprile farò un progetto con la Galo art gallery di Torino. Avrò lì una mia mostra personale, poi il 16 di aprile di nuovo in viaggio verso l’Austria, dove mi aspetta un muro gigante da dipingere. A inizio giugno andrò a Strasburgo per un altro festival. Gli impegni non mancano mai. Adesso che ho aperto lo studio sono occupato fino a settembre, poi vedremo.

La chiacchierata finisce con Pixelpancho che, salutandomi, cerca di accendersi una sigaretta. Mi stupisce con un mega accendino rosso che io scherzando, rinomino fiamma ossidrica. Lui ribatte dicendo che l’ha acquistato per evitare di perderlo e che sicuramente nessuno potrà “fregarglielo” senza che se ne accorga. È secondo lui sicuramente un opera Pop.

 

Per chi volesse saperne di più: pixelpancho.com.

Stefania Annese

scritto da

Questo è il suo articolo n°51

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