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Raccontami trecentocinquanta storie

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Qualche giorno fa mi è stata posta la domanda ‘ti piace scrivere?’. Dopo averci pensato un po’, ho risposto: ‘dipende da che cosa scrivo’. In effetti non mi piacerebbe così tanto scrivere la lista delle componenti di un motore a scoppio o tentare di informare i lettori di Repubblica.it su quanto interessante possa essere il fatto che Sara Tommasi si tolga spesso le mutande in pubblico. Non mi piacerebbe scrivere i dieci motivi per cui non leggere un libro di Fabio Volo, che per scrivere qualcosa del genere dovrei comunque aver letto un libro di Fabio Volo.  Quello stesso giorno qualcuno mi ha consigliato di scrivere sempre delle storie e di scrivere delle persone che quelle storie le vivono, che ‘scrivere’ è sempre ‘raccontare’ e che ‘raccontare’ è qualcosa di molto importante perché è qualcosa che fanno solo le persone. I computer e gli animali e Bruno Vespa fanno qualcosa di molto diverso: comunicano.

Ora, il fatto è che ci sono molti studi che cercano di capire perché mai sia così importante scrivere la storia di qualcuno e soprattutto perché sia così piacevole leggerla. Perché, in poche parole, a qualcuno possa interessare quello che hanno fatto un proletario e una rossiccia nel vano motori del Titanic prima che questo avesse l’incontro con l’iceberg e perché, soprattutto, qualcuno possa piangere per la morte di quel proletario dal momento che, è noto, non è mai esistito. Comunque mi sembra di capire che una delle conquiste più importanti di quegli studi è il fatto che, semplicemente, non si sa e che la gente può continuare a piangere o tifare per il transformer buono, impunemente.

Tutto questo per dire che il ‘raccontare’, in effetti, è qualcosa di molto strano: una cosa che non si fa solo scrivendo ma anche con le immagini o con i suoni o con le mosse. Una cosa che, in molti casi, confonde molto bene i ruoli di chi racconta e di chi sia il raccontato e di chi sia colui al quale si racconta è che pure non perde il suo effetto. Una cosa che in poche parole pare ci sia e non possa prescindere dal fatto che riusciamo a capire molte più cose di quante se ne dicano (che è poi la differenza tra ‘raccontare’ e comunicare, laddove in quest’ultima ciò che si dice è solo ed esclusivamente ciò che si dice: un semaforo, per esempio). Una cosa che ha, infine, molto a che fare con quello che potremmo dire essere la vita ma anche ciò che potremmo dire essere l’arte.

Ok, adesso posso scendere dal treno delle parole e arrivare ad una conclusione. Perché proprio questa cosa dell’arte e della vita è il fondamento di un progetto che qui in Italia è passato abbastanza inosservato e che pure ha una certa importanza? Nel 2010, infatti, YouTube ha chiesto ai suoi frequentatori di filmare aspetti della propria vita (anche in relazione ad alcune precise domande: “che cosa ami?” “di cosa hai paura?”, “che cos’hai in tasca?”) e di inviarli perché facessero parte di un film. Unica condizione: tutti i filmati dovevano essere girati dalle 00.00 alle 23.59 del 24 Luglio 2010.  Dalle 4500 ore di filmati ricevuti da 192 paesi differenti, poi il regista-premio Oscar Kevin McDonald e il produttore esecutivo Ridley Scott hanno montato un film di novanta minuti presentato ai festival cinematografici di Berlino, al Sundance e a Sidney. Life in a Day è perciò il primo film prodotto da 350 attori/registi, ossia da registi che raccontano la propria vita nel modo più naturale possibile, ossia in modo che la loro vita e dunque il film di cui sono attori sia il più simile possibile alla vita di quelli che ne saranno spettatori.  Il fatto, poi, che una giornata intera sia costruita attraverso il racconto della vita di 350 persone e possa apparire più o meno simile a quella che potremmo definire lo schema di una giornata ordinaria sulla terra (una giornata qualsiasi, anche la nostra) porta il paradosso ancora più all’estremo: ciò che si racconta (la vita degli attori/registi) è uguale a ciò che non viene raccontato (la nostra vita), ed è raccontato in modo da farci vedere come 5 miliardi di vite siano, raccontate o no, comprensibili come più o meno la stessa cosa.

 

 

Ma allora, e qui veniamo al problemino di fondo: perché ci interessa? Perché uno come Ridley Scott dovrebbe fare un film su questa cosa? Ebbene, quella che si potrebbe dire una specie di risposta la dà il regista in una intervista al Wall Street Journal: la sua intenzione era quella di “take the humble YouTube video, … and elevate it into art”. Il film, e questo è l’unico dato certo in un caos di ruoli che sfuggono, è un racconto: chi abbia raccontato cosa e perché, se davvero fosse una cosa degna di essere raccontata e se si sia riusciti a raccontarla nel modo più bello possibile – in modo cioè da rendere quel racconto ‘arte’ − non lo so. Quello che so è che qualcuno questa cosa l’ha fatta e, se non altro, ci ha fatto vedere come ‘raccontare la vita delle persone’ nasconda la cosa più misteriosa e più preziosa che abbiamo: che cosa voglia dire, poi, non è cosa da poter indagare in un articolo su Ziguline.

D’altronde, che cosa sono gli articoli di Ziguline se non, ancora, racconti?

 

Per saperne di più: http://www.youtube.com/user/lifeinaday

 

Stefano Pontecorvi

scritto da

Questo è il suo articolo n°64

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