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Del perché tutti, in fondo, siamo Buongiornissimo Kaffèèè

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È iniziato tutto da un periodo buio: il lavoro non andava, in ufficio 50 ore settimanali più reperibilità telefonica per clienti che, alle 6 del mattino, mi chiamavano per dirmi che avevano dimenticato la birra sul bus, unisci la lontananza fisica ed emotiva di amici e ragazzo e il quadretto è completo.

 

 

Guardavo la mia collega, soprannominata Kaffèèè per età anagrafica e qualità di video inviati su Whatsapp, e mi domandavo come mai lei fosse sempre così ottimista e riuscisse a ridere anche dopo i cazziatoni del nostro capo, mentre io cercavo di barcamenarmi nella gestione quotidiana di un sacco di paranoie.

 

 

La soluzione in realtà era sotto il mio naso: lei non aveva pensieri semplicemente perché non si poneva problemi. Immaginate una vita fatta di buongiornissimi e di pause caffè, di Hogan, di catene di Sant’Antonio di zingari tutti cattivi, di “lo Stato non aiuta mai nessuno” e “se mio figlio non studia è colpa dell’insegnante perché la scuola odierna, si sa, fa schifo”. È una vita perfetta: non hai nessun pensiero perché ci pensa qualcun altro, a pensare per te.

 

 

Ho iniziato un po’ forzatamente, pubblicando una mia foto “sexy” (rossetto, sguardo imbronciato, un po’ di tette vedo non vedo) con caption alla Fabio Volo, e vi dirò che la quantità di like e di commenti su quanto fossi bella mi ha dato una botta di autostima mai immaginata prima.

 

 

Ci ho preso gusto fin da subito, ho cominciato a scrivere status inneggianti all’amore e i miei amici, inizialmente stupiti del mio improvviso cambio di identità, hanno cominciato a rispondermi, un po’ per tenere il gioco, a tono.

 

Lo scherzo è andato avanti finché non ha strabordato ed è diventato una questione seria: si sono scatenate discussioni su una foto in cui mi mostravo in topless (di schiena) tra chi, scherzando, mi dava della scostumata e chi, indignato, ha reagito complimentandosi con me per essere così coraggiosa, naturale e bella. Ho ricevuto addirittura telefonate di supporto.

 

 

In quel momento è successa una cosa strana. Ho rotto la mia filter bubble.

 

 

Il magico algoritmo di Facebook ha capito che forse non volevo più leggere complicate retoriche politiche o discussioni intellettual-musicali, ma volevo adattarmi a una vita standard diversa. Sono spuntati nella mia home scheletri di armadi che farebbero invidia a Narnia, conoscenti il cui motto è “Nessuno più di me può crederci più di me”, addirittura persone hanno riesumato il mio numero di cellulare dal dimenticatoio per chiedermi se ero tornata a vivere a Piacenza (Claudia è originaria di Piacenza ma vive da diversi anni a Torino, n.d.e.).

 

 

Ho creato in pochissimo tempo un universo parallelo dove io sono una gran figa, la gente mi riempie di complimenti e mi rallegra la giornata con le gif del buongiorno, in cui non ho preoccupazioni se non qualche hashtag sbagliato messo al posto giusto. E, vi confesso, mi sono sentita bene con me stessa, ho smesso di farmi problemi se fosse il caso di scrivere o meno la mia opinione o se una mia foto fosse in linea con l’immagine che gli altri hanno di me: ho semplicemente smesso di pensare troppo.

 

 

La mia nuova dimensione si è espansa fino a contagiare i miei vecchi amici, quegli intellettuali che mai penserebbero di rovinare la loro reputazione facendo quel che ho fatto io: giustificati dal fatto che il mio era un esperimento sociale, si sono sentiti liberi di esprimere tutto ciò che passava loro per la testa e la mia bacheca è diventata un territorio libero da ogni pregiudizio.

 

 

All’interno di una filter bubble così faticosamente costruita sul prendersi sul serio e distinguersi dalla massa, dove guardare Real Time ti rende superficiale e dove una foto di un libro vale più di una foto in spiaggia, la vera libertà diventa l’essere normali.

 

 

Non ditemi che non avete mai postato una vostra foto con il filtro cane di Snapchat, perché vi ho visto, tra una palma e una immagine pastellosa, scrivere “occhiaie ne abbiamo”, o “lasciatemi qui” con i vostri bei cosciotti spiaggiati al mare.

 

 

Siamo tutti più “ggente” di quanto la nostra élite social vuol farci apparire. È bastato scardinate questa porta un’unica volta per liberare tutta la voglia repressa di scrivere aforismi tratti da pagine “La bella stronza”, di essere poeti dell’età moderna con un tocco di ironia alla Catalano e di lasciarsi andare al primo commento che passa per la testa.

 

 

Perché in fondo tutti siamo un po’ dei Buongiornissimo Kaffèèè, l’importante è esserne consapevoli. E, ricordatevi, “ci sono giornate che non sono buone, ma c’è sempre qualcosa di buono in ogni giornata”. Caffè?

Claudia Losini

scritto da

Questo è il suo articolo n°175

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