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Tra minimalismo e assenza, Ceal Floyer al Madre

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Lunedì pomeriggio. Al Madre, ingresso gratuito.
Il Madre, museo di arte contemporanea di recente apertura a Napoli, è sotto casa. Il lunedì sarebbe da stupidi non andare a vedere le mostre temporanee anche senza sapere chi espone. Anche perché andare al madre è sempre piacevole, sarà per la sua collezione permanente che vanta grandi artisti del calibro di Handy Warhol, o per gli spazi curati da Alvaro Siza dove è piacevole stare.

Questa è la volta di Ceal Floyer, artista che non conosco per niente. Negli spazi dedicati alla sua personale, l’artista ha realizzato le opere pensandole appositamente per il museo napoletano. Sicuramente la nostra attenzione (mia e delle mie compagne di uscite culturalmente elevate) è catturata dall’apparente assenza di qualunque cosa negli spazi espositivi. Un bianco quasi accecante alle pareti, da dove si percepiscono prima i cartellini dei titoli delle opere e poi le opere stesse. È il caso di “mousehole”, un foglio da stampa bianco con sopra disegnata l’entrata della tana di un topo. Bianco e ancora bianco.

Nella stanza successiva “dotted line” , un piccolo proiettore con un’unica diapositiva, nell’immagine un paio di forbici. Ma facendo più attenzione tutti gli spigoli della stanza sono tratteggiati in nero, come se un semplice movimento bastasse a demolire le pareti, a rafforzare quest’idea le forbici, chiaro riferimento alla possibilità di ritagliare tutt’intorno. Stupore misto a interrogativi. Ancora, un banale trapano che poggia sul pavimento, il filo è attaccato alla corrente tramite la presa, ma se si è meno distratti e più attenti ci si accorge che manca la mascherina della presa, e il filo entra direttamente nel muro.

Solo qui mi è venuto in mente un chiaro collegamento al readymade dadaista di Duchamp, la volontà dell’artista di utilizzare oggetti della quotidianità “elevandoli” a opere d’arte.
Tutta la mostra è la limite tra minimalismo e assenza, è chiaramente implicito un rifiuto della spettacolarità visuale. Dopo la mostra la solita voglia di capire meglio, ma ogni tentativo di spiegazione delle opere della Floyer si riduce a una patetica appendice puramente descrittiva.
Capisco solo che il suo lavoro è sul limite sottile tra banalità ed assurdo, tutto è costruito sulle parole e i loro significati, “è come citare l’ovvio, ma con un diverso tono di voce“. Come se l’opera fosse una chiave d’accesso a un processo di pensiero che si innescherà successivamente, come lei stessa dice “L’arte dopotutto non è altro che una possibile manifestazione, una sorta di Cavallo di Troia per le idee”.

Chiaramente non e’ un’artista per tutti, dicono di lei che per amarla bisogna capirla, ma per capirla bisogna accettarla. Noi abbiamo deciso di prendere parte a una delle sue istallazioni: nell’ultima opera un video proiettato in una sala isolata dal resto del museo, “dancing flames”. Nello spazio suoni e immagini sono separati “si fonderanno solo nella mente dello spettatore”. Appena entrate nella sala vuota, buia, l’ immagine di due fiamme enormi che si muovono simultaneamente per effetto del vento. La sala si è prestata come un ottimo set fotografico.

Ceal Floyer un’artista che “costringe a rinegoziare la propria percezione del mondo” …forse eravamo troppo stanche per capirlo.

Lia Zanda

scritto da

Questo è il suo articolo n°30

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