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Once Upon a Wall | Tuttomondo by Keith Haring

«Era un sabato mattina freddissimo della primavera del 1988, ero con mio padre a Manhattan e incontrai Keith su un marciapiede del Village. Lo avvicinai e gli chiesi perché in Italia non aveva mai realizzato nessuna opera, quando sue installazioni erano in mezzo mondo. Mi rispose che era una giusta domanda e mi invitò il giorno dopo a parlarne nel suo studio. Fu l’inizio. L’anno dopo venne a Pisa per realizzare il murale dedicato alla pace».

Tuttomondo

Così Piergiorgio Castellani, allora studente in visita a New York, ha avuto la fortuna di conoscere l’artista americano così da vicino tanto da proporgli un lavoro nella sua città. Ed è proprio come lo racconta nel suo libro Keith Haring a Pisa. Cronaca di un murales che è nata l’idea del grande lavoro, Tuttomondo, realizzato da Keith Haring su una parete del convento dei frati di Sant’Antonio Abate di Pisa nel 1989, un anno storicamente importante in Europa nonché l’ultimo anno di vita dello stesso writer statunitense che come tutti sanno morì il 16 febbraio 1990 all’età di 31 anni stroncato dall’AIDS. Oggi questo capolavoro esiste ancora, lo potete ammirare non lontano dalla stazione di Pisa proprio su una parete di quel convento che durante la Seconda Guerra Mondiale venne in gran parte distrutto ma che oggi rappresenta una testimonianza di pace e rispetto tra i popoli del mondo, come ricorda il titolo della stessa opera che Haring ha realizzato in soli 4 giorni.

Vorrei poter dire di esserci stata in quei 4 giorni di componimento di uno più bei capolavori dell’artista americano, nonché uno dei più gradi in Europa, per potervi raccontare le mie emozioni, le mie sensazioni e quelle degli abitanti che hanno assistito alla realizzazione proprio come faccio alcune volte quando vi coinvolgo nei lavori che molti street artist di alto livello fanno nelle nostre città ma non potendo farlo ci accontentiamo delle immagini, del videoclip L’Arte in diretta e dell’intervista-documentario Tuttomondo, che parlano di questo meraviglioso murale di 10 metri di altezza per 18 metri di larghezza. Sono 30 le figure disegnate da Keith Haring in questo progetto, 30 omini coloratissimi e incastrati e uniti tra di loro fino a formare una catena umana, quell’utopica armonia tra gli esseri viventi, una sorta di rivisitazione in chiave street de La danza di Henri Matisse ma con più enfasi sulla naturalezza dei movimenti dei corpi e sulla vivacità dei colori che hanno contraddistinto la produzione artistica di questo genio morto troppo presto.

Fermandoci ad osservarla più nello specifico è facile cadere vittima dei piccoli dettagli di cui l’opera è costituita, a cominciare dalla croce pisana, o anche detta croce pallata per via delle 12 palle poste sulle estremità di ogni segmento retto che starebbero a rappresentare i 12 apostoli, che in quest’opera di Haring viene rappresentata con 4 figure gialle incastonate l’una dentro l’altra. Poi ci sono degli animali, a sinistra, ovvero un delfino in alto, un cane, una scimmia e uccello che starebbero a simboleggiare l’unione tra i diversi esseri viventi in natura, sempre in alto due figure che formano una forbice tagliano un serpente come a rimarcare la costante lotta tra il bene e il male. Spostandoci verso il basso con lo sguardo si notano due figure contrapposte, ovvero una con un televisore al posto della testa e una femminile che tiene un neonato in braccio ovvero da una parte l’influenza della tecnologia sulla nostra vita sociale e dall’altra il legame più naturale della nostra esistenza mentre in basso a destra spuntano due corpi uniti da una sola testa che secondo alcuni rappresenterebbero il risultato dei disastri nucleari come quello di Černobyl’ avvenuto giusto qualche anno prima. Infine, l’ultima figura di rilievo potrebbe essere lo spettatore che passa davanti al murale, quella figura gialla che magari è in cerca di qualcosa, va curiosando nella sua strada proprio come il bambino viola che gattona in alto a sinistra.

Keith Haring

Contrariamente a quanto era successo con altri lavori che Keith Haring aveva precedentemente realizzato in Italia, come il graffito su una piccola parte del Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1982, un altro sempre realizzato nella capitale nel tratto Flaminio-Lepanto della metropolitana, nonché gli interni del negozio della casa di moda Fiorucci a Milano nel 1985, Tuttomondo è l’unica opera dell’artista americano ancora visibile. Inoltre, dal 2011 fino al 2015, il lavoro è stato sottoposto a restauro secondo l’accordo tra il Comune di Pisa, la Fondazione Haring e la Caparol (la ditta che fornì gratuitamente ad Haring la vernice per la creazione dell’opera) e protetto con una sostanza chimica che lo difenderà dall’usura degli agenti atmosferici e verrà sottoposto ogni anno ad un monitoraggio dei colori e della depolimerizzazione del legante acrilico steso sulla superficie. Oggi, la piazzetta antistante alla chiesa dove è conservata l’opera di Haring, ha conosciuto la sua riqualificazione urbana con l’aggiunta di panchine, lampioni e giochi per bambini proprio in stretta condivisione dei principi umanitari con i quali è stata concepita l’opera dal writer americano.

 

 

Ecco, secondo la mia opinione, le opere andrebbero restaurate e salvaguardate, come si fa con gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina, così come si è fatto per Tuttomondo di Keith Haring, e non strappate dal luogo in cui nascono privandole della loro specificità e del loro contenuto.

 
 

 

Eva Di Tullio

scritto da

Questo è il suo articolo n°178

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