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Viaggio nella Roma multietnica

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C’è una parte di Roma che non tutti conoscono, dove puoi provare il brivido di sentirti straniero nel tuo paese volgendo lo sguardo intorno in modo forsennato, catturato da quelle tipicità di cui la vista va ghiotta quando ci si reca in viaggio fuori dal nostro paese. In una città spesso autoreferenziale, che continua a sentirsi orgogliosamente nell’anima il ruolo di caput mundi, capita di imbattersi in aree dal forte carattere multiculturale, porte dimensionali che ti sovrastano in ognuno dei cinque sensi facendoti apparire la città in un’ottica ancor più speciale. È il caso del tragitto che dalla mastodontica Stazione Termini porta a Piazza Vittorio Emanuele. Armato di macchinetta digitale e tanta curiosità, ho così intrapreso il viaggio nelle viscere di uno dei maggiori quartieri etnici di Roma: l’Esquilino.

comunità africana

Basta varcare la soglia che delimita il gigante marmoreo dall’esterno, nel versante di Via Giolitti. Le stazioni da sempre costituiscono sorta di non-luoghi, piattaforme di transito per milioni di differenti scopi, coacervo di culture, detentrici dell’entusiasmo del partire, spossatezza del tornare. Le stazioni delle grandi metropoli brulicano sempre di grande vivacità. I viaggiatori hanno bisogno di trovare ristoro, letti per dormire, negozi in cui tuffarsi in cerca di rapidi acquisti.

Così è anche la stazione Termini a Roma. Mettendo piede in Via Giolitti il chiasso metropolitano annuncia una città vivace. Le fermate degli autobus, invase dagli adesivi, fanno da sfondo alla fermata dei taxi i cui conducenti fanno capannello per scambiarsi osservazioni di poco conto con forte accento romanesco.

islam alimentari

Le scelte per mangiare sono molte e così poco italiane. Miriadi di kebab, ristoranti cinesi, indiani, fast food e pizzerie poco appetibili costituiscono il vasto ventaglio di scelte per gli avventori. La zona è un miscuglio confortevole, un benvenuto in tante lingue diverse.

Decido di scendere verso via Giolitti, costeggiando la stazione. Ideogrammi cinesi abbelliscono insegne colorate, adesivi rossi affiancano in cinese i nomi italiani dei negozi, prevalentemente di abbigliamento. L’arredo di questi negozi è accomunato da orpelli gustosamente kitsch, le pareti sono per lo più ricoperte da grossolani pannelli bianchi che propagano un’assordante luce.

alta moda nel mercato esquilino

Proseguendo sul marciapiede mi incammino su un passaggio sopraelevato sul quale scompaiono velocemente volti italiani lasciando il posto a una folta comunità di origine africana. Il corridoio sul quale si staglia il passaggio è stretto, cinto a lato da una ringhiera arrugginita. Piccoli alimentari si susseguono mettendo in mostra merci bizzarre, bevande mai viste, prodotti da tutto il mondo. Un gruppo di neri parlottano tra di loro con ostentata leggerezza, con la coda degli occhi avverto i loro sguardi curiosi su di me. Bigiotterie cinesi espongono cascate di collane di tutti i colori. Mi avvicino all’ingresso di una di queste e rivolgendomi alla titolare, una signora cinese sulla 50ina, le chiedo di poter scattare una foto. La mia richiesta suona stramba e ardua da accogliere. Gentilmente la signora fa cenno di no.

negozi cinesi

Il passaggio su cui transito mi ricorda la scena del film Acab. Pensandoci bene è proprio su questi luoghi che sono state girate diverse scene di quel film. Svolto l’angolo e mi trovo una sfilza di alimentari fronteggiati dalla parte opposta della strada da altri, numerosi negozi di abbigliamento cinesi. Un manifesto sulla vetrina di un alimentari cattura la mia attenzione. Vi è raffigurato il volto sorridente di un ragazzo di colore. Trattasi di tal Obi Joshua Ojinkeya, deceduto in quel di Lagos nel mese di febbraio. Una messa cristiana è stata organizzata in suo onore in zona Torre Maura.

Il manifesto di punto in bianco mi aiuta a realizzare qualcosa che a quel punto si fa evidente. Sono entrato in una vera e propria comunità, una comunità nera, dove ci si incontra per parlare, per mangiare, per bere qualcosa insieme, per stringersi intorno ad un caro della lontana Nigeria.

locandina morte ragazzo nigeriano

Punto dritto verso il Mercato Esquilino, sorta di bazar romano che si erge nel cuore dell’omonimo quartiere. Lungo il tragitto mi imbatto in un curioso negozio. L’insegna “Stefano Borse” è posta al di sopra dei soliti ideogrammi cinesi. Un uomo dai lineamenti italiani è appoggiato alla porta con un cellulare all’orecchio intento a parlare un ibrido cinese in cui pare quasi di riconoscere alcuni termini italiani. Mi viene da pensare al connubio tra la tanto decantata creatività italiana con la proverbiale produttività cinese ma, volgendo lo sguardo alla merce esposta in negozio, mi sembra solo di scorgere bassa qualità legata a un marchio che quanto meno ha il pregio di apparire simpatico.

stefano borse

Col sorriso sulle labbra mi affretto a raggiungere il Mercato. Bancarelle indiane e bangladesi espongono sgargianti capi d’abbigliamento di tipo sportivo. Sono ufficialmente passato dalla comunità africana alla comunità asiatico-meridionale. In uno degli stand scopro un piccolo laboratorio artigianale dove sarti indiani stanno producendo all’istante dei capi femminili. Mi faccio coraggio: “Posso scattare una foto?”. Questa volta il sarto si presta volentieri. Attorno a me un gruppo di cinque o sei persone discutono vivacemente. Scatto qualche foto e, contento, continuo il mio tour nel mercato. Sono le 6 del pomeriggio e molti stand sono già chiusi. Tuttavia l’atmosfera mantiene il suo particolare fascino. Anche qui l’impressione neanche tanto velata di essere un condensatore di sguardi la fa da padrone.

laboratorio artigianale nel mercato esquilino

Varcando una delle uscite del Mercato mi trovo immerso nella piazzetta del mercato stesso. In questo stabilimento ha sede la Facoltà di Studi Orientali dell’università Sapienza. Una statua di Confucio sembra diffondere pace e speranza da una delle sommità della piazza. Come altri gruppi incontrati per strada, un gruppo di venezuelani è seduto su delle panchine intento a bere birra Peroni. Uno di loro mi si avvicina con sguardo sorridente: “Capo, hai una sigaretta?”. Mi ricordo di averne una nella mia borsa non ricordo più per quale motivo. Gliela offro volentieri. Presentandosi dice di essere venezuelano, che ha vissuto due anni in Australia e che ora si trova in Italia. Provo a chiedere spiegazioni sul perché si è spostato qui senza ricevere  risposta. Di converso comincia però a parlare della situazione dell’Italia. La sua teoria è che in Italia ciò che ci “frega” è il cuore, il troppo cuore e per rendere chiaro il concetto fa riferimento al carattere latino della nostra popolazione. Non c’è tempo né bisogno di intavolare grosse discussioni, il suo sorriso spensierato e la convinzione nelle sue idee sono motivi validi per un leggero scambio di intese.

manifesto casa pound nel cuore dell'area bangla-indiana

Lo saluto e varco la soglia del Mercato immettendomi nel cuore indo-bengalese del quartiere. Un manifesto di Casa Pound stride fortemente con l’anima di queste strade ammonendo l’elettorato di esser stato “fin troppo moderato”. Anche questa via è ornata da numerosi alimentari con adesivi ed insegne in hindi, svariati call center, agenzie di viaggi e veri empori delle spezie. In un angolo spunta un pittoresco Islam Alimentari che come tutti gli altri è colmo di persone intente a parlare tra di loro. Molti di loro trattengono tra le mani un cono di carta con del riso speziato. Mi avvicino a un gruppetto e chiedo curioso: “Scusate, dove posso comprarlo?”. La curiosità e sorpresa con cui mi accolgono è sorprendente. Col dito mi fanno cenno verso due ragazzi provvisti di un carrello. Avvicinandomi mi accorgo che sono loro a servire quel riso. Mi scrutano con attenzione e mi chiedono se voglia anch’io il mio cono di carta e riso. Gli chiedo che tipo di cucina sia, mi rispondono all’unisono: ”Bangladesh”. Uno di loro mi chiede se favorisco del tè, declino gentilmente, poi chiedo di poter scattare una nuova foto. Mi chiedono: “tu, giornalista?”. Rispondo sorridente: “Ci proviamo!”.

negozio cinese in piazza vittorio

Tutt’intorno la comunità mi sorride e cerca di scambiare due chiacchiere con me. L’atmosfera è gioviale, fraterna e mi sento come perso in un anfratto di oriente a venti minuti da casa mia. Come spiegare una sensazione del genere? Concludendo il mio viaggio, sulla vetrata di un negozio osservo una locandina che annuncia entusiasta l’arrivo di tal Karan Pangali, un bel ragazzo soprannominato il Re della danza di Bollywood. Non faccio fatica a immaginare l’eccitazione delle ragazzine e la contentezza dei tanti indiani e bengalesi presenti sul posto. Come per intere generazioni gli italiani colonizzarono alcune aree delle maggiori metropoli americane, i nuovi immigrati hanno ricreato a Roma un angolo delle loro terre. Uno spazio diverso, multietnico, basato sul concetto di comunità e preservazione della propria cultura. Gemma che impreziosisce Roma restituendogli quell’Oriente che gli antichi gloriosi avi non avevano mai avuto modo di conquistare.

Stefano Paris

scritto da

Questo è il suo articolo n°21

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