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Indian Wells | Pause

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indian wells

 

A volte nella carriera di un tennista serve un momento di pausa, mi ha insegnato Agassi nel suo Open. Un momento in cui si necessita di tornare all’inizio, giocare con i dilettanti, farsi prendere a mazzate, per riscoprirsi e ridare forza al proprio talento. Non so il motivo della pausa di Indian Wells dalle scene che lo avevano già consacrato come grande produttore dopo il primo album “Night drops“: forse si stava semplicemente allenando a superare i suoi limiti per battere il suo record personale di slam, fatto sta che 3 anni dopo torna con un lavoro e un’estetica che lo allontanano dall’etichetta e dall’immaginario del tennis a cui era stato fin troppo associato. Certo, anche io sono partita dal tennis, ma solo per spiegarvi come da una gara in notturna si possa deviare verso altri orizzonti. Uscire dal campo e trovare se stessi, per perfezionarsi sempre di più. “Pause” passa attraverso tracce dal ritmo che si insinua nel tuo corpo, come “Lipsia”, ricordi legati al continuo palleggiare di un grado di ferro (“Mountains”), per cambiare e concedersi momenti di estasi estetica (“New York Nights”, “Pause”), fino ad arrivare al punto più alto in assoluto, “Game in the yard”, un’eco dell’infanzia in tonalità sbiadite.
In Open si legge che la struttura stessa del tennis rappresenta la nostra vita: i punti diventano set che diventano incontri. E così i secondi diventano minuti che diventano ore, e ogni ora può essere la migliore. O la più oscura. Indian Wells, con la sua musica, con il suo lirismo e con il suo immaginario tennistico mette in musica questa metafora e dipinge al meglio le ore più chiare e le pieghe più ombrose dell’anima.
Pause lo trovi sul Bandcamp della Bad Panda Records, grande etichetta.

 

 

 

 

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Noi ascolteremo ogni beat, sentiremo ogni singola nota
e magari ci facciamo scappare un Beans.

Claudia Losini

scritto da

Questo è il suo articolo n°175

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