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Street art e politica, le due storie del ritratto di Obama

Una delle immagini più importanti degli ultimi anni, il ritratto di Obama realizzato da Shepard Fairey aka Obey nel 2008, ha vissuto due storie parallele, una immaginaria ed una reale. Quella immaginaria è la storia di uno street artist che realizza un ritratto di Obama per sostenere la sua candidatura durante le primarie del partito democratico. È questa la storia che è circolata in rete, veicolando una certa immagine di Obama, ovvero quella di un uomo che, in una fase cruciale della campagna elettorale, capisce che associare il proprio volto alla street art, l’arte delle controculture giovanili, gli permetterà di imporsi come il candidato del cambiamento.

L’Obama Progress e l’Obama Change di Shepard Fairey aka Obey

Però le storie, come vi dicevo, sono due ed oltre a questa ce ne è anche un’altra, più reale, che mostra a mio avviso un altro tipo di rapporto tra street art e politica rispetto al murales greco di Blu del quale ho scritto due settimane fa’. Ricostruire in parallelo queste due storie è importante e partiamo allora dalla quella immaginaria, per poi vedere come sono andate veramente le cose.
La storia che più o meno tutti conosciamo inizia nello studio di Shepard Fairey, quando quest’ultimo decide di sostenere in modo del tutto autonomo la candidatura di Obama alle primarie del partito democratico. Fairey sceglie su Google una fotografia, la rielabora graficamente ed aggiunge la parola ‘Progress’ sotto il volto del futuro presidente. Il file, spedito in tipografia, viene tirato in 350 esemplari che sono attaccati nei giorni successivi in giro per Los Angeles, ma Fairey ne spedisce uno anche allo staff di Obama, che lo vaglia, lo approva ed incoraggia infine lo street artist a diffonderlo su larga scala.
In pochi giorni ed anche grazie ad internet, il poster si impone come l’immagine ufficiale del candidato democratico alla Casa Bianca. Nelle settimane successive, appaiono nuovi poster con delle varianti. Le più importanti sono quelle che sostituiscono la parola ‘Progress’ con ‘Hope’ e con ‘Change’.

Shepard Fairey alla National Portrait Gallery di Washington davanti alla matrice dell’Obama Hope

Nel gennaio 2009, arriva anche il clamoroso happy end, perché la Smithsonian Institution acquista la matrice del poster, realizzata a stencil ed acrilici su carta, per esporla alla National Portrait Gallery di Washington, nella propria collezione di ritratti dei presidenti degli Stati Uniti d’America. Anche senza prendere in conto motivi stilistici, il poster di Fairey entra nella storia perché, per la prima volta, il ritratto di un presidente integra questa serie prima ancora della fine del suo mandato.
Eccovi in poche righe la storia che un po’ tutti conosciamo di un’immagine nata per caso nello studio di uno street artist e diventata in pochi mesi l’opera destinata a tramandare ai posteri i tratti del primo presidente nero degli Stati Uniti d’America. È una storia passionante, vero ? Forse pure un po’ troppo, con quell’happy end che sembra costruito a tavolino da uno di quei geni che a volte mettono la loro intelligenza al servizio di un’agenzia di comunicazione.
Ebbene, quel genio non è immaginario come questa storia, perché esiste per davvero, si chiama Yosi Sergant ed è obamiano fino all’osso. È uno dei primi attivisti democratici a sostenere la sua ascesa politica, ma è al tempo stesso un dipendente di una delle numerose agenzie di comunicazione che lavorano per Obama tra il 2007 ed il 2008. In questi mesi di campagna elettorale, Sergant ha praticamente un solo scopo nella vita: far eleggere alla Casa Bianca il primo presidente nero della storia degli Stato Uniti d’America. Per fare ciò, è pronto a tutto, anche a chiedere il proprio aiuto a tutti gli street artists che conosce….

L’Abraham Obama realizzato da Ron English nel luglio 2008 in Harrison Avenue a Boston

Nell’autunno del 2007, Sergant incontra numerosi street artists, tra i quali Shepard Fairey e Ron English, e gli chiede di schierarsi pubblicamente a favore di Obama. Fairey ed English ci pensano un po’ su e, dopo qualche giorno, ricontattano Sergant per confrontarsi con lui. Il primo gli manda una bozza dell’Obama Progress, mentre il secondo realizza il warholiano Abraham Obama. In pchi giorni, l’immagine di Obama si lega a doppio filo con la street art. I muri delle città americane si riempiono di stencil illegali, mentre le fotografie di queste opere diventano delle immagini virali sul web.
Partita più o meno in sordina, la campagna in chiave street art di Sergant diventa uno dei principali punti di forza di Obama. Il messaggio ha però bisogno di essere ritoccato per essere più in linea col suo programma politico ed è a questo punto che la macchina della propaganda viene attivata. Lo staff del futuro presidente contatta Fairey e gli chiede di sostituire la parola ‘Progress’ con ‘Hope’ e con ‘Change’.
Nei mesi successivi, la street art si rivelerà una delle armi decisive nella vittoria di Obama contro Hillary Clinton e non è un caso se, nell’agosto del 2008, in occasione della convention democratica di Denver durante la quale Obama viene proclamato candidato alle elezioni presidenziali, Sergant organizza proprio a Denver la mostra Manifest Hope per riunire e per ringraziare tutti gli artisti che hanno sostenuto il futuro presidente. Street art e politica vanno a braccetto in strada come nelle occasioni ufficiali.

Josi Sergant durante la campagna elettorale del 2008

È questa la storia reale degli Obama Progress, Hope e Change di Shepard Fairey ed è quindi a partire da quest’ultima che vorrei, per concludere, segnalare due punti che mi sembrano chiarire i rischi ai quali la street art andrà incontro se, come in questo caso, farà a meno della propria indipendenza diventando nient’altro che propaganda.
Il primo riguarda la sostituzione della parola accostata all’immagine di Obama. Fairey, nel suo studio di Los Angeles, opta in un primo momento per ‘Progress’, salvo poi allinearsi alle indicazioni che gli sono date dallo staff di Obama e realizzare due nuove versione del poster, l’Obama Hope e l’Obama Change. Due settimane fa’, scrivevo che « nessun politico può imporre la propria visione dei fatti all’immagine dipinta da Blu, perché, per come è stato pensato e strutturato, il suo murales non accetta compromessi ». Il poster di Fairey mi sembra tradire un’inversione del rapporto di forza tra street art e politica rispetto al murales di Blu. A Thessaloniki, è la street art che impone la propria visione dei fatti alla politica, mentre qui si limita a propagandare un ideale politico imposto da uno staff elettorale. Non credo si tratti di un caso se, tra le tre versioni del poster realizzate da Fairey, è quella “normalizzata” dell’Obama Hope ad essere stata acquistata dalla National Portrait Gallery di Washington.
Il secondo riguarda gli effetti visivi di questa scelta. Trasformare la street art in propaganda significa metterla a disposizione della politica, di quella democratica e progressista come di quella di destra e conservatrice, se non addirittura ultra-conservatrice. Significa privarla della possibilità di farsi portatrice di una propria scala di valori e farla diventare un ricettacolo di valori di convenienza.

L’Obama Joker è comparso per la prima volta nel novembre 2008. L’Obama Communist è stato realizzato per contestare i piano di riforma del welfare americano sostenuto da Obama

La street art si piega al ‘Believe’ del candidato democratico alla Casa Bianca impersonato da George Clooney nel film Le Idi di Marzo, come alla paura del comunismo nella destra neocon americana, che non ha infatti esitato a impossessarsi del bagaglio formale della street art parodiando quasi da subito il poster di Fairey.

Per saperne di più:
www.manifesthope.com
www.laweekly.com
arrestedmotion.com

Christian O

scritto da

Questo è il suo articolo n°13

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