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Tobias Rehberger, un giovane orsacchiotto buono

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Ho incontrato Tobias Rehberger la mattina dell’undici marzo in veste di inviata di CTv, la TV online del Festival di Arte contemporanea di Faenza. Sto lavorando con loro alla promozione e all’organizzazione del Festival che vedrà la luce a maggio. Incontro questo giovane orsacchiotto buono in occasione della sua personale alla galleria Giò Marconi di Milano. Si porta “in tasca” un Leone d’oro come miglior artista alla biennale di Venezia di quest’anno e sembra rilassato e calmo. Gli ho rivolto alcune domande riguardanti la mostra stessa, il ruolo dell’opera contemporanea e la sua esperienza alla biennale.

foto di Roberto Santoro

Tu parteciperai alla prossima edizione del festival dell’arte Contemporanea Opere/Works. Secondo te quanto è importante portare in questo preciso momento l’opera d’arte al centro del dibattito contemporaneo?

Penso che sia importante com’è lo è sempre stato e come lo sarà sempre. Non penso che ci sia una necessità particolare per renderlo più importante ora piuttosto che in altri tempi, secondo me è sempre una buona cosa da fare ed è sempre utile per tutti.

Ci racconti il tuo progetto per la Biennale di Venezia? Come l’arte contemporanea incontra i luoghi del quotidiano?

Non era solo questo il discorso, piuttosto, quello che volevo fare, aveva bisogno di un luogo e non una precedenza funzionale. Perché volevo creare qualcosa dove il “focus” non è necessariamente concentrato sull’opera d’arte ma anche su qualcos’altro. Volevo fare qualcosa che vedi piuttosto con la coda dell’occhio e non che vedi quando vai in una galleria d’arte o in un museo, e ci vai per trovare solo l’ opera d’arte. Volevo muovermi su un territorio più “periferico”, è per questo che ho fatto questa installazione in un posto che è anche una caffetteria. Mi sono ispirato alla “dazzle painting” l’idea che svilupparono gli inglesi durante la prima guerra mondiale, che era una sorta di camouflage per le navi di guerra. Mi interessava l’idea di qualcosa che è molto appariscente, ma comunque è pensato per passare inosservato. L’idea di non guardare l’arte (l’opera d’arte), che l’opera d’arte non è solo visuale, ma ha anche altri effetti che ci ispirano, questo era la cosa che mi interessava.

La mostra Beat Me da Giò Marconi, mette al centro la figura di Michael Jackson. Cosa rappresenta per te questa icona? Ci spieghi il tuo progetto per la mostra?

Penso che rappresenti qualcosa di molto ambiguo. Rimanda all’innocenza, alla purezza, ma porta in se anche qualcosa di negativo, qualcosa che la gente non vede come “sano” o “carino”. In questa figura c’è l’una e l’altra cosa. Se ne osservi solo una, non è la verità, e se guardi solo l’altra, neanche: guardando solo da una parte, non vedi mai quello che è davvero. E penso che sia proprio questa contraddizione ad avermi affascinato. Non sono mai stato un grande fan di Michael Jackson. Ma quando è morto è stata usata questa espressione, che indicava un “punto di fine”: this is it. E basta. Come dire “ora puoi analizzarlo, girarlo, come vuoi..”. All’interno della mostra ci sono tre orologi e se ci pensi è una sorta di immagine di Michael. Quando lo si vede ritratto in foto o in video è impossibile capire che anno sia…l’82, il 95 o il 69.

foto di Roberto Santoro

Penso che questa cosa valga per lui più che per altri personaggi. Se guardi ad esempio una foto di Sharon Stone di vent’anni fa, probabilmente non c’è tanta differenza con oggi. È il tempo che passa ma anche “la fine” del tempo, cioè la morte. In ogni caso il soggetto principale è comunque questa ambiguità, un complesso, ma direi quasi un oggetto, però difficile da cogliere.

Per chi volesse saperne di più: festivalartecontemporanea.it

Laura L.

scritto da

Questo è il suo articolo n°36

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