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Filip Piskorzynski fa video sugli alieni terrestri

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Mi sono sempre trovato in una strana condizione rispetto al cinema, ed alla produzione artistica ad esso connessa. Non credo abbia infatti senso, per un abitante della Terra dei tempi più recenti, dire ‘il cinema non mi piace’, senza contare tutte le situazioni erotiche da studente fuorisede che una sala buia ed un film di Lars Von Trier possono favorire. Il fatto è piuttosto che col cinema, al contrario che nelle altre situazioni artistiche con cui mi posso confrontare, mi riesce molto di rado di trovare qualcosa in grado di rappresentarmi seriamente.

 

Per carità, c’è un sacco di gente che aspetta l’inverno per sfoderare l’impermeabile di pelle e camminare per i corridoi universitari con la stessa faccia cupa e protagonista con cui il Corvo zompava sui terrazzi, o Neo schivava un sacco di pallottole comete. C’è un sacco di altra gente che ha imparato a dire le parolacce con Tarantino, ci sono i liceali delle sezioni dell’ultradestra romana felici di aver trovato in Frodo il simbolo delle lunghe passeggiate per il centro con il casco sottobraccio. Ci sono un sacco di mentecatti che riescono agilimente a trovare nelle produzioni della cinematografia adolescenziale italiana le parole giuste per i loro biglietti di S.Valentino, o i gesti adatti per riconquistare quella ragazza che d’improvviso ha preferito montare (il motorino di..) un altro. C’è anche Marzullo che da anni afferma come i cinepanettoni siano l’adeguata rappresentazione artistica della società italiana più contemporanea.

Resta il fatto che io, nonostante sia semi-disoccupato, alla soglia dei 30anni e completamente privo di qualsiasi navigatore esistenziale, non riesco a vedermi nei panni di Silvio Muccino. E non riesco a sentirmi meglio nemmeno con la giacca e la cravatta, sognandomi impomatato e cocainomane come John Travolta in Pulp Fiction. La mia visione della vita è complicata ma piuttosto restìa ad essere del tutto devastata dai film di David Linch. Per carità, non dico che un film debba per forza rappresentare ‘me’ per piacermi: ma aderire ad una prospettiva (anche solo estetica) nei confronti del mondo che io sia in grado di sentire autenticamente ‘mia’, ebbene questo si. Per questo nei confronti del cinema mi sento come Piergiorgio Odifreddi nei confronti della religione: ce ne sono tante, ma tutte mi scivolano in superficie. Non riesco a trovare la mia.

Ora, Filip Piskorzynski è un videomaker piuttosto giovane residente in Germania, ad Amburgo. Ha lavorato per vari marchi e fatto un bel po’ di pubblicità, oltre a produrre e collaborare per un bel po’ di video musicali (compreso l’ultimo delle Cocorosie). Nel suo sito, però, campeggia anche una bella sezione dove trovare i suoi lavori più ‘artistici’, cioè quella parte della produzione di una persona che più dovrebbe esprimere liberamente la sua visione sulle cose. Sono cortometraggi, ma bastano.

L’estetica dei suoi lavori è del tutto funzionale al loro contenuto, ma questa è una cosa vecchia. Il fatto è che i suoi corti sono accomunati da una specie di rumore di fondo, come se i suoi personaggi provenissero tutti dallo stesso posto. Anzi, il contrario: è come se i personaggi dei lavori di Filip provenissero tutti da un altro pianeta, ed è come se quel pianeta fosse proprio il pianeta Terra. E’ una cosa piuttosto difficile da spiegare, ma è come se nei suoi lavori fossero rappresentate delle forme di vita che ci sembrano completamente enigmatiche, la cui sensibilità e i cui silenzi ci spiazzano e restano impossibili da ricondurre a una qualche razionalità da editoriale di Travaglio. I personaggi dei lavori di Filip sono persone che non riescono a vivere nell’unico posto in cui potrebbero vivere. Non riescono ad aderire perfettamente al posto cui appartengono.

In Tabula Rasa c’è una ragazza che è scappata di casa e se n’è andata in Corsica a cercare quello che potremmo chiamare un rifugio dopo una delusione amorosa. Là colleziona dei tesori, dei piccoli manufatti che nasconde in una grotta. Poi incontra un ragazzo, che in una scena le canta What a wonderful world, e poi la bacia, e poi, la mattina, scompare con i tesori stessi. Quella ragazza aveva perso la bellezza del mondo e se la stava ricostruendo pezzo per pezzo, perché certa gente senza quella bellezza non ci sa stare: ma quella bellezza non è una cosa che dura, è una cosa che dal momento stesso in cui la si raccoglie se ne inizia ad andare. Certe persone non aderiscono al mondo non perché siano distanti da esso, ma perché sono distanti da quello che ci piace pensare di esso. Anche Ubiquity è incentrato sull’esperienza dell’amore. Nei corti di Filip l’amore distrugge il mondo precedente e ne crea di nuovi, ma resta la prima esperienza che è sempre destinata a finire.

Ora, quello che voglio dire a proposito del fatto che il cinema non riesce a rappresentarmi, mentre le immagini di Piskorzynski lo fanno alla grande è che l’esperienza di ciò che finisce io – noi? –  non l’affronto col cinismo, non l’affronto come un gioco, non l’affronto come Tarantino né come Melanchonia né me la dimentico come Christian de Sica. Non l’affronto con la depressione. I personaggi di Piskorzynski mi raccontano di un me stesso pronto a questo, pronto ad innamorarmi sapendo che sarà inutile, consapevole che la mia vita e il mondo e le ricerche di lavoro su infojob e i like ricevuti su facebook sono inutili, utili solo a noi stessi che finiremo nello stesso modo. E’ polvere baby, ma è tutto quello che abbiamo.

 L’alternativa è non toccare terra, ma questo è possibile solo vivendo in stop motion (questa la capite solo dopo aver visto Gravity, o il video che Piskorzynski  ha fatto per Parade di Rone).

   

Per i lavori di Filip Piskorzynski | sitoVimeo

Stefano Pontecorvi

scritto da

Questo è il suo articolo n°64

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