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Hypothesis: tutte le lingue di Philippe Parreno all’Hangar Bicocca

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Pianoforti che suonano senza pianista e luci intermittenti che scandiscono il tempo delle note. Flash che riscaldano lo spazio a ritmo cardiaco, cadenzato e, al tempo stesso imprevedibile. Tutti in attesa, i visitatori della prima antologica in Italia dell’artista francese Philippe Parreno, mercoledì 22 ottobre, all’Hangar Bicocca, vero contenitore multiforme, malleabile e scolpito di volta in volta con dovizia artigiana, di chi quello spazio lo conosce bene. Tutti in attesa, “come se dovesse accadere qualcosa”, tutti ordinati, a seguire un percorso tracciato, ma non sequenziale, per stupire, per non lasciare spazio a nessuna ipotesi. Tutti in silenzio, poche impressioni sussurrate a bassa voce, per non rompere quell’equilibrio perfetto andato in scena a via Chiese, nella fondazione voluta da Pirelli, che non si è smentita nemmeno stavolta e ha fatto centro, senza passare dal via.

Se avete amato le Volkswagen scomposte e gli utensili artigiani di Damiàn Ortega, non potrete che adorare l’opera di Parreno, un unicum di introspezione da condividere, discutere e assorbire. Si intitola proprio “Hypothesis” la mostra, visitabile fino al 14 febbraio 2016 e più che un vago titolo è una vera e propria dichiarazione d’intenti. Parreno, classe 1964, è un artista che con i linguaggi artistici sa giocare.


Impostosi di diritto sulle scene artistiche degli anni Novanta, ama stravolgere il concetto di esposizione, in un gioco perpetuo di suoni e linguaggi di ogni medium moderno, dalla televisione, alla radio, passando per il cinema.
E proprio un richiamo al cinema apre la sequenza espositiva: con un omaggio a Jasper Johns (Set elements for “Walkaround time”), l’artista francese propone immagini tratte da “La sposa messa a nudo dai suoi scapoli” di Marcel Duchamp. Richiamo, omaggio, ma soprattutto manifesto, di quella sperimentazione e collaborazione che fa di Parreno un artista che stravolge il concetto di autorialità. Sostenitore del più ambito collaborazionismo risulta essere un anarchico, in un’era in cui grazie alla fruibilità dei contenuti sul Web si tende a custodire gelosamente e ribadire la paternità di qualsiasi prodotto artistico.

Sospesi ad altezze diverse e con grandezze diverse, diciannove Marquees (2006-2015) richiamano le insegne dei cinema americani che, negli anni Cinquanta, illuminavano la strada come lucciole e promuovevano i film in sala. Accompagnano il visitatore e intessono un tessuto di rimandi alle esperienze espositive dell’artista: la prima della serie, infatti, è stata realizzata da Parreno nel 2006 e posta all’entrata della galleria berlinese di Ester Schipper e la trama di questo marquee è proprio la pianta della galleria stessa.

Mentre i Marquees per assonanza e posizione, sembrano osservare impassibili i visitatori che si aggirano con timore reverenziale in uno spazio perturbante, Another Day with Another Sun (2014) rende tutte le silhouettes umane protagoniste inconsapevoli di un film muto, in cui la scenografia post-apocalittica è data dalle sagome delle marquees stesse (plexiglass, suoni e luci) che si riflettono su una parete bianca lungo la navata centrale dell’Hangar divenuto, per l’occasione, tempio e cattedrale che celebra l’arte in tutte le sue ipotetiche forme.

Ma Parreno non è solo un artista poliedrico. Con la precisione e lo zelo di un traduttore, che nelle sfumature di significato cerca il corrispettivo perfetto di un’idea, propone ai visitatori sequenze filmiche e sonore, nate dalla collaborazione con altri artisti; è il caso di Mont Analogue (2001), che colora lo spazio con un fascio monocromatico diffuso da un proiettore senza lenti. Ispirato al romanzo incompiuto di René Daumal, rappresenta la traduzione in codice morse dell’opera in luce.
In Invisibleboy (2010-2015), invece, l’artista francese ci racconta la vita di un bambino cinese immigrato a New York. Immerso in una moltitudine soffocante di oggetti che si accumulano, il bambino è un “supereroe contemporaneo prodotto dalle città di oggi”, mentre fuori tutto è calma e voluttà. Voluttà di entrare nelle visioni di Philippe Parreno, in un cammino di corsi e ricorsi, in un universo personalissimo di ipotesi e possibilità di lettura. E quando il visitatore riemerge dalle sollecitazioni visive e sonore della mostra rimane stordito. Come all’uscita di un film ben girato, non gli resta altro da fare che stare in silenzio a lasciarle sedimentare quelle ipotesi, in attesa che rinascano sottoforma di altre storie. E se il postino suona sempre due volte, occorre ritornare almeno tre volte a rivederla, la mostra di Parreno, perché non ci si perda nemmeno un secondo del magnifico racconto che l’artista francese ha regalato a Milano e all’Hangar Bicocca.

Giuliana Pizzi

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Questo è il suo articolo n°28

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