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Appuntamento allo studio di Antonio Biasucci

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Chi l’avrebbe immaginato che lo studio di Antonio Biasucci fosse a pochi metri da casa nostra. Nel cortile di un vecchio palazzo del centro storico di Napoli lo aspettiamo. Ci sorprende arrivando di corsa in bicicletta, scusandosi per i tre minuti di ritardo ci accompagna nel suo studio. Alle pareti bianche i suoi ultimi lavori. Fa freddo, accende la stufa, ci sediamo ed è un fiume di parole.

foto di Lia Zanda

Come ha cominciato ad appassionarsi alla fotografia? Il suo substrato culturale ha influito sulla sua scelta?

 

Non è una domanda facile, anche perché per molti anni ho evitato questa domanda perché mi imbarazzava rispondere. Non era semplice dire la verità. Bisogna considerare che mio padre faceva il fotografo di matrimoni, io non ho mai voluto farlo, nonostante mi avesse più volte invitato ad imparare, anche perché lui si ammalò ed era un peccato che tutti i clienti andassero dispersi. Però non c’è stato verso. La svolta è stata quando venni a Napoli e comprai una nikon reflex, in qualche modo si avviò uno scontro con papà, lui la considerava una “macchinetta” rispetto alle sue. In realtà mi trasferii a Napoli per l’università, in questa città che avevo tanto desideravo. Venivo da una realtà di paese, però ascoltavamo musica psichedelica, che solo a New York si ascoltava. Eravamo un gruppo di appassionati, andavamo a cercare dischi di importazione. Vivevamo una quotidianità legata alle vacche, in un contesto molto bucolico. Napoli non era New York, ma comunque una metropoli. Io ebbi delle forti difficoltà ad adattarmi, era una città che non riuscivo a comprendere, a vivere. La macchina fotografica è stata per me un forte aiuto. Ebbi una crisi esistenziale fortissima, per cui cominciai a fare fotografia. La prima cosa che feci ritornai al paese, andai a fotografare le cose che avevo ripudiato, rinnegato. La macchina fotografica mi servì per ridefinire la mia esistenza. Cominciai a fare i conti con quella realtà però in una maniera diversa. Sicuramente così cominciai a fare fotografia. La fotografia ha mantenuto sempre questo vincolo, è sempre stata una necessità,non è mai diventata un mestiere. Per me la fotografia è stata un’ancora di salvataggio, la mia psicoanalisi.

 

Come nasce un suo lavoro?

 

Tutti i temi che ho trattato sono in qualche modo legati alla mia vita. Tra questi la malattia, che è stata fortemente presente nella mia famiglia, gli immigrati, dato che i miei nonni lo erano stati in passato e tutto ciò che è legato al mondo contadino.

 

Nella collettiva “Barock” che è in corso al MADRE, la sua installazione “Molti” è dedicata ai nuovi schiavi del XXI secolo. Come è nato questo suo ultimo progetto?

 

L’ultima mostra nasce da un sogno. Ero con Ciceri, Palladino e Fuxas a montare un installazione “Napoli in croce”. Raccontai di un sogno fatto dopo aver visto l’ennesima moria di immigrati. Avevo sognato una chiesa che era piena di bacinelle, dove c’erano questi volti, che avevo già visto al Museo di Antropologia. Dopo due anni mi ricordarono di questo sogno, provammo a fare dei prototipi per realizzare questa installazione. Io l’avevo completamente rimosso. Quando avvio una ricerca non so il perché, mi ci avventuro. Se tutto fosse così razionale diventerebbe anche poco stimolante. Quando capisci perché lo fai non è più un mistero.

foto di Lia Zanda

Sembra indispensabile nei suoi lavori la scelta del bianco e nero, deriva da una volontà iniziale o è un mezzo per trasmettere il messaggio scelto?

 

Non faccio il colore semplicemente perché non lo so fare. Mi piace il colore e tanti artisti del colore mi interessano. Però io non ho la pratica del colore. Quello che porto avanti è un progetto ben preciso. Io costruisco negli anni, valorizzo, compongo dei tasselli. Dover mettere dentro questi tasselli un lavoro a colori, non avrebbe senso. Appena mi avvicino ad un soggetto che mi interessa, non riesco a vederlo a colori. Bisogna considerare che c’è un presupposto di tipo concettuale, io considero il nero il punto di partenza, poi la luce illumina e mette in risalto i soggetti che fotografo, li accarezza. Il nero ha la caratteristica di essere senza tempo e siccome mi considero un fotografo-antropologo la mia fotografia può essere interpretata come un’evoluzione di una certa fotografia- antropologica. L’antropologia stessa è la storia dei luoghi, io cerco di trovare soggetti che appartengono alla storia degli uomini. Il pane è un soggetto che appartiene alla storia dell’uomo a prescindere se stia in Africa o in Italia. La vacca è un animale emblematico della storia dell’uomo. Il vulcano è un luogo che nasconde il mistero della creazione, appartiene alla storia dell’uomo.

 

Che tipo di fotografo si definisce?

 

È difficile mettermi un’etichetta perché io non sono un fotografo di paesaggio, né di archeologia, né di architettura. Quando decido di fotografare mi domando sempre che cosa possano rappresentare quelle immagini nella mia visione di vita. Il mio più grande maestro Antonio Neiwiller che faceva teatro sperimentale spesso non veniva apprezzato. È importante capire quando finisce una trovata e quando vi è un contenuto.

 

Qual è il lavoro di cui è più soddisfatto o orgoglioso?

 

È difficile dirlo. In realtà è una domanda che mi fa scoprire perché in casa non ho fotografie. È come se volessi liberarmi. Non faccio foto alla mia famiglia, è qualcosa che è legata al mio stato d’animo ed è una condizione di tipo esistenziale. Non posso fare questa cosa ai miei figli e quando vivo un momento bello con loro non posso prendere la macchina fotografica, non vivrei il momento. E come mettersi d’avanti alla tv e la macchina fotografica ti costringa a ritagliare quella realtà. Io sono molto legato ad ognuno dei miei lavori al punto che non riesco a sceglierne uno. È come quando ti chiedono quale dei figli preferisci.

foto di Lia Zanda

I suoi figli le hanno mai chiesto di fotografarli?

 

Quella del papà fotografo famoso è una tragedia. L’anno scorso ho fatto la foto di fine anno ai bambini della prima elementare, chissà che si aspettavano. Invece era una “chiavica” di fotografia. Se l’avesse fatta il fotografo di cerimonia sarebbe venuta decisamente meglio. Sarebbe stato impossibile applicarmi per renderla interessante senza usare tutti i miei parametri che non hanno nulla a che fare con la quel tipo di fotografia.

 

Progetti futuri?

 

Una mostra a Capodimonte sul pane che in realtà è un lavoro del 2008. Come per “Molti”, la mostra è incentrata su unico soggetto. Sono 40 pezzi di pane che assumono forme diverse. “Molti” è stato il primo lavoro prodotto in questa città. Gli altri “Magma”, “Res”, “vacche” sono stati sempre prodotti all’estero. Quindi diciamo che solo negli ultimi anni ho fatto mostre in questa città.

 

È stata una scelta personale?

 

No, io sono stato uno che ha avuto la fortuna di essere conosciuto prima in Francia, poi di riflesso in Italia. Dico fortuna perché accompagnai un mio amico ad un incontro internazionale di fotografia in Francia. Avevo con me un portfolio, che vide un fotografo romagnolo. Disse che ero bravissimo. Conosceva tutti lì, presentò il mio lavoro mentre io assistevo muto alla scena.

foto di Lia Zanda

Lei ha esposto in tanti Paesi, come è visto l’artista italiano e che giudizio viene espresso sulla scarsa attenzione, anche economica, che l’Italia dà all’arte contemporanea?

 

L’artista italiano non è considerato assolutamente male. In Francia la fotografia è sempre stata ritenuta molto importante, mentre in Italia aveva un ruolo marginale e di scarsa qualità.

 

E’ possibile vivere di arte in Italia?

 

Per quanto riguarda la fotografia negli ultimi 15 anni è cambiata tantissimo. Prima non era semplice vivere di fotografia artistica. Invece adesso non c’è paragone, c’è un mercato differente. Diciamo che per un giovane che inizia a fare fotografia oggi ha sicuramente delle difficoltà legate ad un mezzo che tutti utilizzano. Questo non ha agevolato molto la qualità delle fotografie. Io il digitale lo uso quando mi serve, lavoro fondamentalmente con l’analogico, che impiega un tempo più lungo. Permette una fase di approfondimento.

 

Solitamente la fotografia è considerata un hobby, qual è l’hobby di un fotografo?

 

Vado in mountain bike. Ogni settimana, come stamattina, vado a mangiare un panino sul Vesuvio. La maggior parte dei miei lavori nasce quando pedalo.

 

Intervistare Antonio Biasucci è stata una piacevole sorpresa. Ci ha affascinato con la loquacità inaspettata, la sua visione della fotografia e la sua umiltà. Un grande fotografo con cui è piacevole conversare.

Lia Zanda

scritto da

Questo è il suo articolo n°30

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