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Chris Fraser e i ritratti di luce

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Secondo Henry Cartier-Bresson il centro della fotografia come arte sta in un istante, un momento decisivo in cui al genio-fotografo viene rivelata, attraverso un’immagine, una verità profonda ed immediata. Quel fotografo, e solo lui, ha la sensibilità per riconoscere quella verità stessa.  Ora, io ho 26 anni, nessuna conoscenza della verità e vengo da Frosinone, dunque non mi sognerei mai di contraddire Cartier-Bresson. 

Ma il fatto è che la fotografia esiste da molto prima di diventare arte, ossia da molto prima che i primi esemplari di post-adolescenti in skinny jeans e camicia a quadri iniziassero a portare le loro reflex digitali alle manifestazioni contro i tagli governativi alla scuola pubblica. Solo che prima di tutto ciò la reflex era una stanza intera. O meglio, una camera: la Camera Obscura.

In effetti la Camera Obscura altro non è che una stanza, o una scatola, completamente al buio con l’eccezione di un piccolo foro su un lato: sul lato opposto, assieme alla luce, si proietterà la riproduzione dell’immagine esterna al foro, solo capovolta. Il principio è lo stesso degli obbiettivi cui siamo abituati, solo molto più elementare (e non zoomma). La Camera Obscura è come una macchina fotografica, solo che è manifestamente sottratta alla volontà dell’uomo: è come se la luce si riprendesse il suo ruolo di protagonista. Come se ci dicesse che comprare un grandangolare da 4.000 euro può non essere la soluzione finale per fare cose belle con la fotografia.

Tutto questo per parlare di Chris Fraser, che è un artista e usa il metodo della Camera Obscura. Fraser progetta Camere della dimensione di vere e proprie stanze, e poi gioca con la luce facendo un foro, poi un altro, cambiandone dimensioni e disposizioni. I risultati sono favolosi. Fraser dice: “Rimuovi il frammenti di muro, badando ad ogni cambiamento. Le immagini si sovrapporrano ad altre immagini, dissolvendosi infine nella semplice impressione della luce”. Al contrario di Bresson, Fraser usa l’immagine per arrivare alla luce, e non viceversa; la fotografia si dissolve nel trucco che è sempre stata, e che s’è illusa di non essere. L’artista si mostra, così, nella capacità di ammettere la propria impotenza produttiva e nel lasciare alla propria creatività il lavoro preziosissimo di sapere osservare il mondo e le sue capacità.

D’altronde Fraser usava la macchina fotografica o fotocamera: “Consideravo la mia casa come una macchina fotografica vivente” dice “Avrei voluto vedere le immagini del sole come si muovevano sul pavimento del soggiorno nel corso di una giornata, e osservare il suo percorso cambiare con la stagione.  Ho provato a fotografarlo, ma senza successo. Non solo non era un buon modo per fissare l’immagine: la bellezza era nel movimento”. La stanza sapeva fare quello in cui la macchina non riusciva: il gioco era fatto.

 

Fraser fa ritratti di luce; ritratti fatti con la luce, e ritratti della luce. Probabilmente Fraser non cerca il momento perfetto, né sarebbe facile dire che per fare ciò che fa occorre una sensibilità di stampo romantico. Ma una cosa Fraser la fa: egli arriva, con le sue opere, ad una verità profonda. Anzi, egli quella verità ce la può solo mostrare, perché quella verità appartiene alla luce, a quel mondo di cui noi siamo osservatori e che, solo laddove sappiamo curarcene, ci appartiene.

Per saperne di più: 

 

chrisfraserstudio.com

 

Stefano Pontecorvi

scritto da

Questo è il suo articolo n°64

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