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Omaggio a Keith Haring

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Se gli omini di Keith Haring potessero muoversi, io per loro immaginerei un sottofondo musicale dominato da continue percussioni su bonghi. Un paesaggio africano sarebbe lo sfondo fumettistico di tutte queste figure animate, rese ancora più vivaci dai colori utilizzati. Sicuramente parlare di uno dei più grandi artisti pop è cosa semplice e assicura anche un pieno consenso da parte di chi non può far altro che amarlo. Io, sinceramente, non avevo mai visto una sua mostra, mai visto i suoi quadri dal vivo, ma lo adoravo non solo per i suoi disegni che sembrano quasi essere dei puri e semplici fumetti, ma anche per il suo impegno sociale che ha sempre caratterizzato tutte le opere fino alla sua morte. A prima vista sembra quasi che Keith Haring voglia solo farti divertire, scherza con il disegno e le sue composizioni. Lui, figlio di un fumettista, diventa “succube” dell’arte stilizzata e di animazioni televisive e fa di questo le ragioni della sua vita.

Nel 1976 Keith si mette a girare tutto il Paese in autostop fino ad arrivare a San Francisco, dove rende palese il proprio orientamento omosessuale. Decide poi di andare a Pittsburg per iscriversi all’università. È proprio qui che si forma la sua Arte. Qui espone le nuove creazione, che ben presto lo porteranno a New York alla School of Visual Art. La Grande Mela si sa, sarà la sua seconda casa, perché la metropolitana di New York diventerà la sua tela, sulla quale dipingere tutti i suoi fumetti e da cui spiccherà il volo la sua popolarità. Nonostante venga più volte arrestato per l’attività di writer, artisti come Andy Warhol ne apprezzano le opere e lo sostengono nei progetti. L’ultimo compagno di Keith dice di lui: “Mentre dipinge sprigiona energia”, e tutti i lavori lo dimostrano grazie ai colori audaci e alle sue figure che tanto assomigliano a geroglifici egiziani.

La sua è comunque un arte figlia degli anni Ottanta, “vittima” della musica rap, della breakdance e critica verso i problemi di quegli anni e ancora attuali come l’AIDS, la droga, l’intolleranza e la discriminazione nei confronti degli omosessuali, la Tv e il suo uso smodato, il nucleare. Proprio sull’uso del crack Keith Haring diceva: “Crack is wack”, il crack è una porcheria. Le figure zoomorfe e antropomorfe come il bambino radioattivo, l’uomo con la testa di cane o di coccodrillo, vengono utilizzate dappertutto, non solo su murales della città di New York, ma anche nella pubblicità. Keith utilizza lo spot e il suo effetto mediatico per dare un messaggio molto più importante che non è quello del consumismo, bensì quello della nascita, della morte, delle conseguenze disastrose del nucleare, della pace e della fratellanza. Dietro immagini apparentemente disimpegnate si nasconde un pensiero politico ed etico universale. Questi sicuramente sono concetti ripetuti fino alla nausea che molti già sapevano, ma io non avevo idea che questa grande icona pop avesse realizzato insieme ad Andy Warhol una rassegna artistica dal titolo “Terrae Mortus” promossa da Lucio Amelio e finalizzata a raccogliere fondi per i bambini terremotati dell’Irpinia.

Questa la mostra che ho avuto la possibilità di visitare nel mese di gennaio. Circa 30 lavori dell’artista statunitense, selezionate da Andrea Ingenito, sono state esposte alla Domus Artis Gallery di Napoli. Inutile dire quanto fosse emozionante vedere le sue opere e la sua firma, inutile descrivere quanto immediato e vitale sia il suo linguaggio artistico. Come tutti gli artisti in vita non fu apprezzato, ma ricordato soprattutto per le collaborazioni pubblicitarie. Eppure dopo tutte le sue composizioni ironiche e paradossali è stato capace di creare un linguaggio visuale universalmente riconosciuto, una sua firma. Tutto questo fino alla fine, quando a 31 anni muore di AIDS e del suo successo dice: “Nella mia vita ho fatto un sacco di cose, ho guadagnato un sacco di soldi e mi sono divertito molto”.

Stefania Annese

scritto da

Questo è il suo articolo n°51

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