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La signora a cui ho rubato l’anima sulla S-Bahn

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Berlino è più a nord di quanto ricordassi, da curiosi giovincelli del sud ci piace assai. Un plauso nostalgico va alle bionde fuori e dentro i bicchieri (a questo punto potrei sentirmi particolarmente scontato, nel senso di prevedibile ma con originalità), ai tetti a punta, alle ripartenze silenziose delle auto fumanti ai semafori. Alla puntualità degli appuntamenti sotterranei, e al vento che ti appesantisce la nuca quando risali e compatta la compagnia. Alla vecchia carta da parati e al bacio sorridente della barista, meritato e sporto sul bancone. Abbiamo perso al biliardino nella classica sfida Germania-Italia, ma i giocatori hanno il casco e sono molto meno agili dei nostri.

Non ho trovato nessun buon motivo che giustificasse il buco del cesso decentrato, ma abbiamo appurato che gli autisti degli autobus sono i più scontrosi d’europa, come la guida giustamente anticipava. Non ho mai preso tanto freddo in vita mia ma ho riscoperto una sorta di termo-sadismo supportato dagli strati di lana e cotone, a mo’ di cipolla, del nostro stile invernale.
A proposito, provate a fare una fila di un’ora per entrare al “lido” a Kreuzberg. Una serata come tante, con ingresso a pagamento. Sul più bello, cioè quando tocca a voi, fatevi chiedere qualcosa in tedesco dal gorilla dietro la transenna e rispondete in inglese… per farla breve fatevi dire che i gruppi non entrano (ma prima toglietevi il cappello e pettinatevi, si è sparsa la voce che devi essere bello per entrare). Poi dividete la vostra comitiva in due, una coppia da una parte e due ragazzi dall’altra… dite che non vi conoscete, che stavate solo scambiando quattro chiacchiere uno dietro l’altro al freddo (se proprio insiste, le chiacchiere fatele diventare due). Ok, la coppia adesso può entrare, voi no. Cominciate a ridere, domandatevi e domandate perché. Il gorilla col braccio teso da due minuti verso la strada, dopo avervi perfino consigliato dove andare a smaltire la sbornia (non lì), risponderà: no guys! Niente ragazzi. Tu non entri, fattene una ragione. Prendetela con giubilo e gridate agli italiani riparati sotto gli ombrelli scuri, riconoscibili dalla bottiglia di plastica di gin lemon fatta in casa, di essere solidali con voi. Prima di vederli entrare, semplicemente. Sentitevi belli quanto loro ma accettate il caso. È come, dopo essersi raccontati la barzelletta del porco e dell’asino (proprio quella), ritrovarsi per strada a ridere e riattivare la circolazione del sangue. Dopo aver raffreddato l’ora più produttiva della vostra serata e un paio di dita dei piedi per scarpa, domandatevi per l’ennesima volta se è il momento di un kebab.

La sera dopo entrerete nel ristorante all’angolo dove mi è uscito il sangue dal naso. Nel bar della polacca, col karaoke e la sambuca flambé. In quei posti non passava tanta giovinezza dalla caduta del muro. Che c’era la neve l’avrete intuito, e che figata… è stato scontato intonare la strofa in cui il Battiato di Alexander Platz suggerisce di vedersi la sera fuori dal teatro, ogni volta che passeggiando ci veniva di canticchiare e a turno riprendevamo dal ritornello. Ci piace Schubert?! E poi i doppi cappucci, i guanti e le nuvolette di vapore disegnate dalle nostre bocche, con le spalle strette, ci hanno accompagnato su quel tetto ad aspettare il nuovo anno. A pochi secondi dalla mezzanotte ho scroccato il flash per una foto ad un aspirante abbagliatore alla mia destra, con gli inattesi e stimolanti risultati del caso. Prosit neujahr!
È incoraggiante continuare a scrivere di una città, direi ancora per poco, senza elencarne i monumenti e i musei, ma enfatizzando la signora a cui ho rubato l’anima sulla S-Bahn. Senza aver ancora detto che non è il currywurst a farcire il panino, bensì il contrario (viste le incoraggianti dimensioni del primo rispetto al secondo, simile a quei sotto-pasticcini di carta a soffietto che ti restano in mano una volta inghiottito il dolcetto). Rime a parte… a Berlino ci ero già stato in inter rail, ma arrivavo da Copenaghen ed era tutto sfocato. Dopo stavolta dovrò ritornarci, anche solo per quel cappello di velluto verde che non ho neanche provato nel negozio di roba usata sotto casa di Daniela, lo stesso che le ha regalato il divano e che abbiamo imbrattato con le nostre fantastiche impronte di fango e spensieratezza. Non vi sarà chiaro se il divano o il negozio, ma l’ho scritto apposta.

immaginario collettivo

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Questo è il suo articolo n°2

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