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Ritmi di guerre estatiche

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Francesco Macarone Palmieri è stato nostro guest author qualche tempo fa in occasione del suo articolo/saggio dal titolo “Sign O’ Times” dedicato alla scena culturale underground capitolina, di cui è un noto e prolifico esponente. Questa volta lo abbiamo intervistato per farci illustrare il contenuto di un suo  libro uscito ben sette anni fa per la Meltemi Editore, dedicato al fenomeno dei Free Party.

ziguline: Nel 2002 hai pubblicato un libro per Meltemi Editore intitolato “Free party. Technoanomia per delinquenza giovanile”. Potresti introdurlo brevemente e spiegare il titolo che, almeno per me, non è così immediato.

Warbear: Per me è un’operazione difficile riflettere su un lavoro di sette anni fa che a sua volta si concentra su un percorso dei dieci anni antecedenti alla sua pubblicazione. Ma non di meno avvincente poiché mi spinge ad evocare le immagini emotive e le architetture teoriche che ho vissuto e prodotto, e che per me sono ancora bollenti. Per questo le mie risposte, più che entrare nel libro lo attraverseranno, correndoci intorno, per capire l’oggi.

Il dato rilevante è che “Free party” sembra una bomba ad orologeria innescata male, un ordigno esploso in ritardo, al confine con il suo stesso revival. Alcuni editori si sono informati per la possibilità di una ristampa ora, ed un numero sempre più cospicuo di lettori mi scrive perché non riesce a trovarlo, dato che è esaurito.

Il libro è fortemente autobiografico oltre ad essere una via di fuga dalla storia dei vincitori. Un sogno fatto cemento armato o l’ardore di strappare un terreno di libertà dalle leggi del mercato e dalle oppressioni sociali attraverso l’autogestione di un party senza alcun confine. In tale sogno si è scatenato lo zeitgeist degli anni novanta, metafora e pratica di un mutamento antropologico radicale. Se traduci il titolo “Free party” puoi scoprire, nella sua tensione bipolare, tutta la cosmogonia dei contenuti. Esso parla di feste, avventure, metropoli, alterità, suoni, conflitti, tecnologie, frontiere, droghe, consapevolezze, strategie, invisibilità, occupazioni, danze, amori, desideri, libertà. Il tutto sintetizzato in un concetto: RAVE.

[“Mani nel cemento” – Documentario sulla scena dei rave illegali con materiale di repertorio dal 1994 al 2001 prodotto da CandidaTV]

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Il sottotitolo proviene da una fanzine, legata alla etichetta “Praxis”, prodotta da un personaggio carismatico che risponde al nome di Christoph Fringeli e che, insieme alla distribuzioneNetwork 23”, ha dato il via alle produzioni indipendenti di musica techno. La testata è probabilmente la più importante per quanto riguarda il movimento dei rave illegali/free party/teknival, dando bollettini di guerre estatiche e stimoli di riflessione reali sul declino del ventesimo secolo e sulle albe micropolitiche del nuovo millennio.

Il titolo era ed è “Datacide, Techno theory for juvenile delinquents” e io adoravo il gioco di provocazione, nel ribaltamento degli stereotipi di certi linguaggi. Il suo appeal si rifaceva alle definizioni giornalistiche anni ’60 della devianza giovanile e alle speculazioni sociologiche di certa accademia ammuffita. E ciò, non solo per provocare la stupidità e sottolinerare la lontananza di tali quadri dai nuovi sciami libertari, quanto per storicizzare in chiave postmodernista questo tipo di apparato; come se fosse un manufatto linguistico degno di una rappresentazione museale. Archeologia della comunicazione. Anche per questo la testata si chiama “Datacide”. correndo sul filo del rasoio essa gioca sull’omicidio dell’informazione e delle sue economie, ma anche sul datacidio, quindi sull’uso della tecnologia come sovversione dei poteri politico-economici che organizzano i territori. Sempre giocando sull’archeologia della sociologia e sulle strategie del ribaltamento come pratica iconoclasta, ho adottato una nozione di carattere positivista: l’anomia Durkheimiana. Il concetto narra dello stato di disordine, o assenza di norme, dell’essere “individuali”. Nell’ottica positivista, tale carattere è da reprimere poiché se l’essere “sociale” è lo stato puro dell’essere umano, la sua individualizzazione è un pericolo per la funzionalità della struttura. Dato che il libro abbraccia l’amore per la minaccia ed il desiderio dell’oltraggio, rien ne vaut plus. Da tali idee nasce il sottotitolo “Technoanomia per delinquenza giovanile”.

foto tratta dal documentario "Mani nel cemento"

ziguline: Perché rave ed i cosiddetti “Free party” sono così importanti da spingerti a scrivere addirittura un libro, che poi si presenta come una sorta di trattato antropologico sul mondo delle posse, crew, tribe e tutte le forme di aggregazione (contro) culturale metropolitana?

Warbear: Entrando nello specifico; “Free party” parla del movimento dei rave illegali, del momento storico che lo ha scatenato, degli attori che lo hanno creato, dei contenuti che lo hanno attraversato, delle trasformazioni che ha innescato. Ciò è avvenuto con una molteplicità consistente, quindi incrociata e dialogica, di visioni prospettiche; siano esse induttive e deduttive – ovvero dalla dimensione locale romana a quella internazionale – siano esse sincroniche e diacroniche – ovvero dalla microterritorialità alla molteplicità cronologica dei suoi percorsi storici – siano esse teoriche o letterarie – dall’analisi socio-antropologica alla narrativa dei reportage – sia scritta sia visiva – dalla struttura aperta del testo alla sua grafica – con la pubblicazione di tutti i flyer di tutti i rave illegali, i free party, le street parade e i festival da me raccolti. Avevo un’urgenza spasmodica di tracciare i confini di un’esperienza che vivevo conclusa con una serie di valutazioni che, a loro volta, avevano l’intenzione di aggregare e rilanciare visioni che avanzassero ipotesi per azioni future. “Free Party” per sé non voleva essere solo uno spazio del racconto e dell’identità, quanto della difficoltà e del desiderio di spostare la riflessione e l’azione verso nuovi margini operativi. Agli occhi dell’oggi, nonostante un testo denso e complesso, pregno di documenti ed idee, penso di non esserci riuscito. Per questo, allo scader di quasi dieci anni da tale pubblicazione ho ripreso in mano il discorso in un saggio intitolato “Minoranze. Territori, corpi, desideri” che uscirà in Italia il prossimo gennaio.

ziguline: Perché i rave, i free party ed i party illegali rientrano in quella che viene definita “controcultura” e che cos’è la “controcultura”?

Warbear: Farmi una domanda del genere è firmare la condanna al saggio. Per rispondere ad una questione così enorme e sterminata bisognerebbe ripercorrere la storia del pensiero sociologico ed antropologico di un secolo. Per facilitarlo, prendo come punto di partenza il momento in cui il paradigma sociologico struttural-funzionalista entra in crisi, il sociale perde il primato come angolo di lettura umana e l’analisi del concetto di cultura si slega dal dominio della struttura e intraprende un percorso individualizzante che si apre in un processo radiale.

Indagando e sintetizzando in modo asistematico tali storie, dovremmo partire dal concetto di “cultura giovanile” e di come esso si cristallizzi nella sfera occidentale, in un percorso che dagli Stati Uniti, arriva in Europa negli anni quaranta. Prima di questa data, c’erano due sfere dell’esperienza umana: l’età infantile e quella adulta. Ad ognuna di queste, rispecchiavano delle norme sociali (doveri/diritti) e dei modelli culturali (modi di essere) ben definiti a seconda delle estrazioni sociali (provenienze di classe). Dalla sfera infantile si entrava direttamente in quella adulta, ripercorrendo i valori dati dalla famiglia occidentale nella sua organizzazione economico-sociale e nella sua formazione culturale patrilineare. Non esisteva un momento intermedio con una sua dignità socio-antropologica. Il formarsi di una cultura contestualizzata anagraficamente (dai quattordici anni in poi, a seconda dei momenti storici) che rompe con l’autorità dei padri e che, soprattutto, si autopercepisce come tale, permette l’emergere del concetto di “cultura giovanile”, di “subcultura”, contendendo in esso, i germi del concetto di “controcultura”.

Da tale scintilla nasce l’hic sunt leones, una geografia barbarica, fluttuante ed irrisolta di gruppi “giovanili” che rifiutano le norme sociali sovra descritte. La piega del tempo, o spazio di confine, è il rigurgito della seconda guerra mondiale che negli Stati Uniti produce una generazione di dannati. Come carne da macero scampata al conflitto, la gioventù emerge rabbiosa e mal si confà al positive thinking americano. Teppisti, fannulloni, giovani delinquenti, spendono quei quattro dollari versati dalle pensioni di guerra in giubbotti di pelle e moto di produzione americana, iniziando lo sbando nomade da costa a costa. Vivono in gruppo, non hanno casa, si ubriacano, sono promiscui, ascoltano musica demoniaca di origini oscure chiamata Rock and Roll. E soprattutto ballano e si scontrano. Si amano e si accoltellano. Corrono e bruciano. Sono ribelli senza una causa e senza futuro perché si sono già presi il presente.

foto tratta dal documentario "Mani nel cemento"

I loro modelli culturali vengono promossi, visualizzati e distribuiti attraverso l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa. Radio, cinema, televisione. La loro autopercezione permette la definizione di microconfini identitari che si strutturano in relazione alle loro conflittualità dialettiche fino arrivare ad una seconda deflagrazione. La sviluppo del mercato farmacologico con la democratizzazione della tecnologia chimica permette ai “giovani” di conoscere ed innamorarsi di molecole psicoattive e produrre una visione critica della vita definendo valori politici libertari, autogestionari, ecologisti, antimilitaristi. Nasce il movimento psichedelico americano che esplode in tutto il mondo e s’intreccia con una situazione politica di effervescenza portata sul piano sempre più alto dello scontro con i vecchi poteri politici europei e i nuovi poteri capitalistici americani. Parallelamente, le avanguardie storiche europee che arrivano al situazionismo, creano il campo per una rivolta imminente. Il tutto è mescolato alla circuitazione dei modelli culturali psichedelici che fanno nascere le prime occupazioni e comuni, in un circuito che tocca non solo il canale anglofono nell’importazione dei modelli, quanto il nord Europa, come la Svezia e la Danimarca. Arriva la bomba, che scoppia e rimbomba. Esplode il movimento universitario ed il maggio francese del sessantotto. In questo spazio-tempo della storia occidentale le culture giovanili si politicizzano e sviluppano un’ideologia che significa il prefisso “contro” in modo sempre più estremo. Il bivio è chiaro: da una parte c’è un percorso di politica antagonista militante che porta ai suoi episodi più drammatici di guerra civile e del terrorismo, dall’altra il flusso controculturale che si apre in modo ondivago e concentrico, attraversando creature urbane come rocker, mod, punk, skinhead, goth, b. boy, ed infine raver e traveller in una dinamica assolutamente caotica e non lineare; riesumando il pensiero situazionista e Hakim Bey, in una ritmica psichicamente nomade. Parallelamente, le riflessioni scientifiche di carattere sociologico ed antropologico culturale creano il campo per lo spostamento prospettico delle analisi. La Scuola di Chicago e l’Istituto per gli Studi Culturali di Manchester producono la rottura specificatamente culturale nell’ottica di società complessa. Tali enti decostruiscono l’idea etnocentrica occidentale per la quale la funzione di uno scienziato sociale è quella di analizzare i sistemi semplici dell’alterità, riconfermando i sistemi complessi dell’occidente. Essi portano la riflessione sul fatto che tutti i sistemi sono complessi ed è l’analisi scientifica ad esemplificarli. In questa logica si avvia un processo di crisi che mette alle corde l’autorità della rappresentazione dell’altro come forma di potere. La decostruzione dell’asse occidente vs. oriente, nord vs. sud, primo vs. terzo mondo, produce la frontiera che vede il diverso nell’uguale, l’alterità nella norma, lo straniero nel familiare. Nascono sociologie ed antropologie culturali che scelgono come campo la metropoli e i suoi attori. Nasce il concetto di “conflitto” come individualizzazione culturale e un nuovo concetto di “cultura”. Esso non è più quell’apparato omogeneo di modelli funzionali all’azione sociale tramandati ritualmente in un processo naturalizzante, quanto un insieme complesso di simboli significativi che l’uomo produce e all’interno del quale rimane invischiato. Nasce l‘autorappresentazione ovvero l’acquisizione degli strumenti di analisi socio-antropolgica da parte degli attori sociali stessi che rappresentano le proprie culture. Nasce l’antropologia critica che aggredisce radicalmente gli stereotipi etnocentrici dello scrittore culturale. I Cultural Studies diventano movimento teorico di critica culturale che raccoglie ad ombrello una molteplicità integrativa di prospettive in un approccio multidisciplinare e polisemico: la cultura è vista come testo che gli stessi individui producono, dove soggetto, oggetto e metodo sono in continua trasformazione dialogica. La domanda che libera è: chi rappresenta chi, attraverso quale linguaggio, all’interno di quale contesto? Ad oggi, il concetto di controcultura non assurge più alla caratteristica storica che lo ha definito perché coinvolge una riflessione sul concetto di “scape” ovvero su quali siano le nuove nature del potere, quali siano i territori sui quali esse agiscono e quali siano i i nuovi linguaggi del conflitto, quali siano i tessuti linguistici che definiscono e legano le nuove soggettività in forme di relazione microsociale. Su queste domande si sviluppa il nuovo testo “Minoranze”. Per chiudere, i rave illegali possono considerarsi l’ultima forma controculturale emergente dal declino della civiltà occidentale.

foto tratta dal documentario "Mani nel cemento"

ziguline: Nella presentazione che fai di questo libro parli di “metropoli mondo”. Che cosa intendi esattamente con questo termine?

Warbear: Il concetto di metropoli-mondo gioca sul percorso che parte dalla nascita delle città nella rivoluzione industriale, passa nella sedimentazione delle metropoli dell’inizio del ventesimo secolo per arrivare in un processo di velocizzazione che vede l’esplosione degli sprawl urbani, l’estremizzazione caotica di sviluppo metropolitano, come spazi eterotopici ed interconnettivi. La metropoli non è più solo quella narrativa corretta di politica, mercato e progetto architettonico quanto lo spazio glocale della convergenza esplosiva ed implosiva in cui flussi globali mediatici, finanziari e politici confliggono e contemporaneamente si armonizzano con i localismi, le micropolitiche, le fratture territoriali, lo scontro e la dispersione. In questa flessione si scatena un prisma di visioni che dà vita a risposte continue sul piano della trasformazione culturale, sociale e politica. La metropoli-mondo è un’atlantide disperata che urla bellezza, la babele dei linguaggi in cui esplode la follia del sapere, l’accelerazione del consumo in un processo vertiginoso, la frana dei non-luoghi in micro spazi ruvidi. I rave illegali sono stati il buco in cui alice è caduta di spalle, volando alla conquista del paese delle meraviglie.

ziguline: Tra i protagonisti di questo scritto ci sono i “traveller” di cui tu tracci la storia e l’evoluzione generazionale. Chi sono è che ruolo hanno all’interno della scena dei “free party”.

Warbear: Dal punto di vista prettamente italiano, i traveller, nomadi della nuova era, rappresentano la seconda generazione dei rave. La storia nasce dalle controculture americane e inglesi, da quell’idea di vita nomade che attraversa il movimento psichedelico, passa per il punk e giunge nel circuito dei Free festival inglesi, rasata, piercata, vestita di nero, con una flotta di camion, sound system autocostruiti, studi mobili e uno statement imprescindibile: “make some noise”. Il pensiero è a spirale e l’organizzazione è tribale. Nasce la Spiral Tribe: generazione aliena o gruppo di giovani sovversivi, artisti, musicisti, Djs, rapper, stanchi della scena dei rave commerciali inglesi e delle sue mafie. Si infiltrano nei warehouse party e sviluppano una visione numerologica che risponde al numero 23, il caos ovvero espandere la scena e connetterla con il circuito anarchico storico dei free festival inglesi. Il simbolo è la spirale o rappresentazione asimmetrica della natura e del suo turbolento fluire frattale. Iniziano a viaggiare per portare il loro sound e organizzare feste all’interno di tali eventi e superano il punto senza ritorno. 1991. Nel Free festival di Castelmorton Upon Avon, Spiral Tribe aggrega 50 sound system e 10 mila persone (chi dice ventimila) per un mega rave libero e gratuito di due settimane non stop. È il big bang delle controculture. La linea di confine che traccia la nuova onda. La loro presenza nomade sul territorio produce una controrisposta ad un frame inglese devastato dal conservatorismo tory, dove l’unica politica è quella del mercato, della privatizzazione continua di spazi pubblici e servizi, e le loro gesta diventano leggenda e loro diventano il nemico pubblico numero uno della società inglese, scatenando una delle legislazioni più repressive d’Europa: il “Criminal Justice Act“. Tale legge colpisce in assoluto tutti i movimenti poiché vieta a più di una decina di persone di riunirsi su un suolo in cui avvenga una non specificata “ripetitive beat emission”, reinventando l’idea di “adunata sediziosa”. La Spiral Tribe, spinta dalla morsa repressiva e dalla sua natura interconnettiva a spirale, lascia il Regno Unito per approdare sul continente ed entrare in relazione con la scena techno francese. Nascono un’infinità di tribe, di cui le più famose: “Oqp” e “Metek“. Esplode la scena dei Teknival, festival techno di settimane che converge con tutte le tribe, le organizzazioni i sounds system in un enorme unico evento illegale. Il loro circuitare arriva in Italia a metà anni novanta. Da questo momento in poi la scena locale cambia, e cambia con uno scontro di culture dovuto al fatto che la visione del circuito romano e italiano é radicato sul territorio e troppo localista per riuscire a sviluppare una mediazione culturale con l’altro estremismo globale della visione nomade. La sintesi è uno scontro a fuoco con pitbull, coltelli e pistole al rave di capodanno del 1995 nella zona di Castel Romano ai confini di Roma tra le crew romane e le tribe. Il processo è comunque inarrestabile. La scena delle tribe è il nuovo che arriva e travolge con immaginari, droghe e musiche. Le lingue parlate sul dancefloor sono almeno tre: inglese francese e romano. Cambia il metodo organizzativo. Entrano in scena i Sound system. Nomadismo, camion, dreadlock, baggy pant, cappelli con la visiera a tre quarti, botte di speed, padelle di ketamina, hardtechno e cani da presa diventano un modello di vita. Il concetto di rave si rinnova con quello di Free Party abbandonando la didascalia dell’illegalità, alla ricerca di nuove forme sovversive.

foto tratta dal documentario "Mani nel cemento"

ziguline: Annullamento del concetto di melodia, il rumore come energia creativa. Questo dici nel libro parlando della musica techno. Va bene l’annullamento della melodia, mi è meno chiaro l’aspetto creativo di questo genere (musicale?).

Warbear: Questo discorso nasce dal punk. In un volantino storico del “Virus”, uno dei primi spazi occupati punk a Milano ancor prima della nascita del movimento dei centri sociali, si leggeva “Questa non è musica. È rumore”. Ciò per dire che il punk voleva essere un linguaggio per l’espressione di tutti, che insultando la forma, giocava sull’immediatezza, sui quattro accordi per fare una band, voleva produrre impatto e contrasto, creare disordine, essere stridente e urlare il contraddittorio, distruggere le schematiche della melodia come asservimento all’ordine e alla disciplina delle logiche di mercato. Da qui, il motto Spiral Tribe “Make Some Noise” o, ancora, “Public nuisance”, rumore pubblico (gioco di parole di una legge storica inglese) che si lega al punk in chiave tecnologica. La “repetitive beat emission” nell’ottica della standardizzazione del mercato musicale non è vista come musica, non solo nella sua composizione ma, in primis nella sua fruizione. La struttura della techno come suono che si ripete in un periodo di quattro quarti ad una velocità di 180 battute per minuto, è incorporante e incorporata, è un’esperienza spaziale che evapora i confini, un’esperienza fisica e psichica che si esprime mettendo il corpo al centro del tessuto musicale attraverso il ballo e facendo derivare le menti in un’ecologia aperta e interconnettiva. Non è musica. È rumore. E non puoi non scegliere, o stai dentro o stai fuori. Vinca Petersen apre il suo libro “No system” scrivendo: “Le vite delle persone sono organizzate intorno a cose differenti, la nostra è incentrata sulla musica. Nel nostro nucleo c’è il sound system. Ci dà vita, nutre i nostri talenti, detta i nostri movimenti, c’induce all’avventura e ci tiene insieme… Vogliamo liberarci dalla stasi sociale. Volgiamo essere liberi di creare le nostre società con le nostre regole. Noi proponiamo musica libera per chi la vuole e non vogliamo altro che accesso agli spazi pubblici”. La techno non può non essere esperienza collettiva. Il basso ti bombarda il ventre. La ripetizione ti esplode nel cervello in alterazioni acufeniche. Metti le mani sulle casse e avvicinati. Voci e poteri bruciano nell’aria di un dancefloor epifenomenico dove il suono è rumore, sorgente, vita e va alimentato come un fuoco profano che accende visioni di guerra. “Make some noise” è un oltraggio al silenzio sociale, un’istigazione alla rivolta, ineluttabile spazio della mente per le generazioni del retrofuturo. Il “Plasitk”, storico rave illegale romano, ne racconta il senso. In occasione della settima edizione, gli organizzatori hanno prodotto una t-shirt sulla quale piovono groove come lamette: “condannati a morte dal vostro quieto vivere, distruggeremo la tranquillità delle vostre domeniche”. Potete essere sicuri che la festa non si fermerà.

foto tratta dal documentario "Mani nel cemento"

ziguline: Ho trovato molto interessante la tua ricerca “documentaristica” sui codici di comunicazione visiva usati nell’ambito della promozione dei rave e dei free party. Parlaci un po’ di questo tuo archivio dei flyers raccolti negli anni in occasione dei vari rave party illegali a cui hai preso parte.

Warbear: L’archivio che vedi pubblicato su “free party” segue il detto “ogni immagine racconta una storia”. In questo senso esso racconta la storia dei rave illegali e dei free party, delle street parade e dei festival a Roma e in Italia, percorrendo la nascita, la definizione e la mutazione di questa cultura sul piano dei linguaggio visivo. I flyer che vedi pubblicati sono tutti varchi che ti scaraventano direttamente sul dancefloor di ogni singola festa manco fossi Doctor Who; dalla zona clandestina di Tor Cervara #1 del ‘92 , la fabbrica di via Silicella, Primavalle, Ostia, Martignano, la Città Morta, la Snia Viscosa in una sequela di party che arrivano agli ultimi raves del 2000 di Kernel Panik e che, in un certo senso, chiudono un ciclo della stagione romana. Ciò, oltre ad essere un documento incredibile di una storia sommersa, produce un processo d’identificazione che solo chi c’era può sentire con emozioni irrefrenabili. I flyer sono l’anima dei rave nel loro compito di rappresentarli sul piano del richiamo; sirene incantatrici di scenari occulti che ti accendono la voglia impazzita. Un richiamo al piacere del fuorilegge. Sei chiamato al disordine, alla scelta “bandita”. Sai che non puoi mancare. Sai che ci sarai, cascasse il mondo. Sai che ci sarai per far cadere il mondo. E sai anche che quando guarderai quel flyer dopo il party, sarà talmente denso di storie e frequenze che diventerà un magnete e la tua vita avrà senso.

foto tratta dal documentario "Mani nel cemento"

ziguline: Leggendo un po’ in giro la tua abbondante produzione “letteraria” ho notato che ricorri spesso ad un linguaggio molto ricercato, quasi accademico a volte di difficile comprensione. Polarizzazioni contenutistiche, temporalità frattale, technoanomie, antropologia della comunicazione visuale, e via di seguito. Non pensi che gli argomenti di cui tu tratti potrebbero avere un pubblico più ampio se solo ricorressi ad un linguaggio, diciamo così più accessibile? Voglio dire, non rischi in questo modo di confinare la cerchia dei tuoi lettori a pochi addetti ai lavori?

Warbear: Guarda, è un discorso difficile e contraddittorio. Può sembrare una presa di posizione arrogante ma io non ho mai creduto nell’esemplificazione linguistica come strumento di formazione e di moltiplicazione dei lettori. Di tale scelta ne ho sempre pagato le conseguenze; sia sul piano del mercato editoriale sia sul piano umano. In un certo senso non sono mai stato commerciale. Contemporaneamente c’è una parte di me che crede questa sia una scusa banale per produrre identità e difendersi dalla propria insicurezza, e che sia molto facile non essere commerciali, piuttosto che confrontarsi con dei linguaggi del controllo – costruiti e naturalizzati come popolari – per giocare con i loro codici. Il mio sforzo è stato sopratutto quello di abbracciare più linguaggi proponendo una struttura aperta, in piena tradizione postmoderna. Nella sua logica non esclusiva, puoi sviluppare una lettura lineare che parta dall’analisi socio-antropologica iniziale per arrivare ai flyer in chiusura, oppure aprire il libro a caso ed iniziare a leggerne i reportage oppure le analisi di comunicazione visiva. In questo senso non è un libro commerciale. È difficile e spigoloso, un campo minato che esplode alla lettura. È un terreno psichico di stress e rivelazioni, come un rush che ti esplode dentro quando hai perso il conto delle droghe che hai assunto e, oltre a non riuscire a motivarlo, non sai se ti sta prendendo bene o male. È un corpo poliedrico e multicentrico fatto di visioni, nozioni ed emozioni. Come detto, questo lavoro rappresenta un mio momento specifico anche dal punto di vista linguistico. I linguaggi utilizzati, da una parte desideravano irrompere in una comunità scientifica che aveva sempre parlato a nome di altri, ma dall’altra svelava contemporaneamente delle strategie di difesa nel porre una mediazione tra un oggetto bollente come la storia della mia vita e la sua resa pubblica. La mia inibizione è tangibile. Specialmente nella prima parte del testo ci sono infiniti nodi scorsoi proprio nella mia difficoltà ed espormi in prima persona, entrando in contatto con me stesso, per cercare di sopravvivermi. Oggi la mia scrittura è molto differente. Se mi proponessero di fare un altro libro su questo discorso, probabilmente, proprio per affrontare il mio lato oscuro, farei un romanzo riferendomi agli stili narrativi di Welsh e Houellebecq, utilizzando desiderio e cinismo come ritmica del racconto ed il linguaggio scientifico in chiave descrittiva.

ziguline: Un giorno mi piacerebbe parlare con te del tuo ultimo saggio “Emoporn” ma vorrei che ci consigliassi prima qualche bella lettura per arrivare preparati a lezione.

Warbear: Ne parleremo un giorno. Nel frattempo, per una lettura propedeutica ti consiglio tutti i testi che trovi in rete di Barbara DeGenevieve, con la lettura imprescindibile dei saggi “Porn Sublime” e “the hot bods of queer porn”, il “Net Porn Studies Reader” del Network Cultures Institute – scaricabile gratuitamente in pdf dal sito – e “Netporn. DIY web culture and sexual politics” di Katrien Jakobs.

Per introdurvi al mondo della pornografia delle emozioni potete leggere il mio ultimo saggio: “EMOPORN, delle pene, dei delitti“.

– Francesco Warbear Macarone Palmieri

http://www.myspace.com/warbear

Link al libro Free Party edito da Meltemi Editore

Il documentario “Mani nel cemento” è una produzione Candidatv

Dimitri Grassi

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Questo è il suo articolo n°319

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