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Trenta giorni in moto nel bellissimo Vietnam

Si parla di:

Nguyen

 

La piccola Nguyen sta ferma sulle sue scarpine delicate, vestito compito e sguardo intenso. Con la sua manina armeggia con il mio naso felice, spalancando i suoi grandissimi occhioni diamante. È uno bello grosso, non credo ne abbia visti molti di così voluminosi prima d’ora. Mi guarda con fare tra il sospeso e il divertito mentre continua a prendere le misure come una sarta esperta. La mamma sullo sfondo si gode la scena con un sorriso pieno e illuminato da una luna magnanima. Starei lì per ore.

 

 

Un motorino di bassa qualità

 

Mi aggiro con Kirsten, la mia ragazza americana, nella zona dei backpackers di Ho Chi Minh City in una torrida giornata di maggio in cerca di una moto. Ogni anno migliaia di viaggiatori decidono di lanciarsi in un tour del Vietnam che dalla capitale Hanoi giunge al sud della vecchia Saigon o viceversa.

Acquistiamo la nostra Honda Wave dopo esserci recati in una concessionaria della periferia. Il motorino è nero fiammante, cilindrata 110. Moltissimi tra gli abitanti locali hanno lo stesso mezzo e noi crediamo sia una buona idea seguire il loro esempio. In verità è tutto l’opposto rispetto a cosa ci eravamo prefissati: uno scooter semiautomatico, con insufficiente spazio per due persone per un viaggio di almeno 3000 km, con un motore scadentissimo – i numerosissimi vietnamiti che vi si accostano pronunciano uno schifato chineeeeeese con eloquenti smorfie – e una quantità industriale di piccoli grandi difetti.

 

 

Primo giorno

 

È il primo giorno di viaggio quando, nel tentativo di abbandonare il traffico assurdo di Saigon, ci imbarchiamo col motorino su un traghetto che ha il compito di far la spola con l’altra sponda del poderoso fiume della città. Siamo gli unici occidentali in motorino. Salpa il battello, uno sciame univoco di motorini che si danno di gomito invadono la timida stradina che ci ricongiunge con la strada principale. Svoltando poco dopo sulla destra troviamo appollaiata una incazzosa pattuglia di polizia locale. Abbiamo sentito che possono fermarci e chiederci un bel gruzzolo di soldi – una tangente intorno ai 20 euro, una bella somma per il Vietnam – che non possiamo permetterci. Evitiamo ogni sguardo e nulla accade. Un centinaio di chilometri dopo stiamo già percorrendo le strade deserte che costeggiano le coste del Mar Cinese Meridionale. Dune altissime e pacchiani resort scintillanti aggrediscono la strada in un contrasto bizzarro con i numerosi vessilli comunisti.

 

 

A Bao Loc ci sentiamo delle star

 

Fa fresco a Bao Loc, grazie a dio. Bao Loc è una cittadina ad un centinaio di chilometri dalla molto più famosa Da Lat, la Parigi vietnamita. Non c’è moltissimo da fare in città bensì cascate meravigliose tutto intorno. Arriviamo dopo esser passati attraverso una pioggia intensissima trovando una commovente sensazione di fresco. Il nostro albergo non è mai stato ammodernato negli ultimi 40 anni. A riceverci c’è un giovane ragazzo vietnamita che non parla una parola di inglese e si cimenta in un concerto di sbuffi di disagio, risatine nevrotiche e tentata, naturale gentilezza. Finalmente veniamo accompagnati alla nostra stanza.

Paghiamo pochi dong ed entriamo in una sorta di sagra locale. Sulla destra si sente distinta la voce squillante di un giovane venditore proprietario di una bancarella che offre tutto a 10.000 dong, più o meno 40 centesimi. Decine di vietnamiti si accalcano come marionette impazzite. Noi ci mischiamo nella folla, incuriositi dal can can. Siamo Angiolina Jolie e Brad Pitt scesi tra i mortali, tutti gli occhi sono su di noi. Più giù un gruppetto di 4 ragazzine adolescenti mi fissano instancabili con un sorriso malizioso. Sorrido di rimando. Giovani famiglie con a rimorchio ordate di bambini acquistano cappotti invernali con pellicciotti cinesi. Sul palco un cantante vestito con capi aderenti si prodiga in stucchevole pop asiatico. La calma è rotta da un gruppo di ragazzi che come forsennati si lanciano in gruppo verso l’uscita con spranghe a seguito. Una grossa folla si avventa verso il piazzale antistante l’evento. Sembra si stia inscenando una violenta caccia all’uomo. Non accade nulla. Tutto è piuttosto surreale.

 

 

Hoi An

 

Hoi An contiene in sè le tracce delle svariate dominazioni straniere succedutosi in Vietnam. Hoi An è meravigliosa. Alloggiamo di fronte a campi di riso tagliati in diagonale da corridoi rialzati percorribili in bicicletta e abitati da grossi bufali spiaggiati.

La parte storica della città è popolata da splendidi cafè e ristoranti, mentre infinite sono le boutique di sarteria. Si dice che basti portare una foto di un qualsiasi capo e che i sarti di Hoi An sappiano riprodurli minuziosamente. Nella città impazza la produzione di Bia Hoi, una birra fatta in casa e bevibile solo nella giornata stessa che costa 20 centesimi di euro per una 0,30 cl. Con prezzi così non è un caso che la città offra un’area popolata da svariati bro che sembra non sappiamo urlare altro che awesome o yeahhh. Ve ne sono tanti nel sudest asiatico.

Decidiamo di cucinare qualcosa per la ragazza che gestisce il nostro homestay. Apprezza moltissimo la mia bruschetta al pomodoro e mi annuncia entusiasta che la inserirà nel menu con il mio nome. Tra una bruschetta Paris e un bicchiere di vino il discorso si sposta con grande velocità alla politica. È molto critica, parla di un governo che a quanto pare non gode di molta simpatia in molti settori della popolazione. Ci parla di una censura opprimente che noi stessi abbiamo avuto modo di sperimentare con temporanei oscuramenti di Facebook nei giorni precedenti.

È sera. Le luci della città di Hoi An illuminano quel che sembra un set teatrale troppo bello per essere descritto. Le piccole imbarcazioni popolate da antiche donne vietnamite colorano il canale, le costruzioni basse e graziose di stampo coloniale sono cinte da piccole luci che puntellano con coni luminosi le pareti di un giallo ottimista. Hoi An di notte è il posto più magico del Vietnam.

 

 

In panne

 

È un giorno splendido, ci siamo recati al Phong Nha-Ke Bang National Park, fatto un tour nella grotta più lunga al mondo, persi con il motorino in una giungla tropicale fitta come una ridondante chioma africana, pranzato con dei buonissimi Bhan Mi vietanmiti, recati in un bar fuori rotta dove ti concedono di scegliere il tuo pollo e te lo ammazzano davanti agli occhi prima di servirtelo cotto a puntino. Sulla via del ritorno stiamo passando sulla Ho Chi Minh Trail, oggi una strada, ieri uno stretto sentiero che tagliava le folte foreste e che veniva usato dai Viet Cong per portare con sfacchinate faticosissime i rinforzi alle loro postazioni del Sud occupato dagli statunitensi durante la guerra del Vietnam.

Tutto ad un tratto un maledetto tonfo sordo. Una parte del motore si “stappa” e un possente gettito d’olio si mette a zampillare. Siamo in mezzo al niente e abbiamo rotto il motore. Bambini escono fuori da una casa, soccorrendoci. Ci indicano un meccanico a pochi metri da lì dove passeremo le 3 ore successive. Qualche bambino si avvicina ogni tanto osservandoci con malizia, un gruppo di vietnamiti confabulano tra di loro volgendo periodicamente il loro sguardo su di noi. Io sorrido, butto giù quelle poche parole in vietnamita che ho imparato, tiro fuori l’argomento calcio per tirarmi fuori dai guai. Cambiare il radiatore, saldare il portapacchi e stabilizzare gli specchietti ci costerà 20 euro totali. Un prezzo che era stato già gonfiato come da usanza locale in quanto stranieri. Venti euro.

 

 

Sotto le rocce di Tam Coc

 

Dopo una rissa simil American History X sul ciglio della strada e tanti chilometri polverosi giungiamo nella pace di Tam Coc, dove migliaia di formazioni carsiche svettano da verdi risaie su cui infiniti coni di paglia sono piegati a lavorare. La zona è chiamata la Halong Bay asciutta in quanto molto simile alla ben più famosa baia marina. Il nostro bungalow è completamente all’aperto, posto sotto uno sperone che ci fa da chioccia. Si fa la doccia nudi con vista sullo stermiato acquitrino di fiori di loto.

Saliamo sopra Hang Múa. Ci sono capre su cigli rocciosi intente a mangiare erba. Per il resto la vista è asolutamente incredibile. Un sogno che impiegheremo ore per assimilare. Una leggera brezza, un eterno silenzio. Dalla cima della montagna il Vietnam non ci è mai sembrato più bello.

 

 

Atmosfere

 

Scorrono le ruote del nostro motorino su strade lontane e pendii verdeggianti come l’Hai Van Pass, un’altura nel mezzo di due panorami costieri che a destra e sinistra si snodano infiniti. Scorrono le ruote attraverso città con lunghi boulevard e immani rotatorie.

Bambini di nemmeno due anni in piedi sulla sella del motorino, in mezzo tra mamma e papà. Ragazzi e ragazze in divisa che si raccolgono intorno ai venditori di cibo di strada dopo la scuola, presissimi dai loro smartphone con le cover di Hello Kitty. Bambini che al nostro passaggio ci fissano in maniera sbalordita. Il traffico fatto da milioni di motorini che si incuneano uno sopra l’altro come stecchini di Shangai.

 

 

La propaganda politica del partito comunista vietnamita è probabilmente l’elemento più affascinante dell’intera scenografia del paese. Gigantografie stilizzate di militari, immagini di pace e prosperità, l’onnipresente sagoma di Ho Chi Mihn. Non c’è edificio che non esponga le bandiere rosse del Vietnam e quella comunista.

L’ospitalità di questa gente è un tuffo al cuore. Sono appena sceso dal nostro albergo. Ci sono un gruppo di una decina di persone a bere birra ed ascoltare musica assurdamente pop, insceno una danza ridicola davanti a loro che spezza istantaneamente il mistero che si cela deitro la mia faccia occidentale. Dopo un anno e mezzo di Asia ho imparato che piccoli gesti come questi creano sorpresa-empatia-sorrisi-accettazione repentina. Mi viene offerta una birra freddissima e invitato a ballare con loro e cantare karaoke. Torniamo nel cuore della notte, dopo una serata passata in centro. Quello stesso gruppo di persone che fino a poche ore fa mi offriva felice delle birre ora sta dormendo per strada su piccole stuoie di bambù. Il cuore di questo paese è grosso così.

Stefano Paris

scritto da

Questo è il suo articolo n°21

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