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Un giorno in Giappone ovvero il Kokeshi Rebel Fest

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Avevo tenuto in considerazione il fatto che per scrivere una recensione su un evento che parla di Giappone ci avrei impiegato un po’ di tempo e in effetti, questo pezzo ne è la conferma. Sì, perché parlare di arte e cultura giapponese non è così semplice, ti induce a pensieri scombinati che spesso non trovano la via d’uscita. Soprattutto quando non ci sei mai stato e tutti o quasi i tuoi amici tornati da questa terra fantastica ti raccontano di cose che tu non puoi capire. Ti senti fuori dal mondo. E allora, io che faccio ancora parte di quel mucchio indecente di gente che ancora non è stato almeno una volta in Giappone, proprio io mi sono presa il mio tempo per far decantare tutto, quello giusto per raccontarvi che il 25 maggio 2014 sono stata al Kokeshi Rebel Fest e che ci tornerei volentieri.
Non era la prima volta che partecipavo ad un evento che sa di Giappone ma questo devo dire che mi è particolarmente piaciuto, mi ha fantasticamente colpita soprattutto perché ho avuto la conferma di quello che penso sia il Giappone: un paese di folli adorabili.

foto di Togaci
Al Kokeshi Rebel Fest, che si è svolto negli infiniti spazi di Visiva a Roma, da dove già vi abbiamo raccontato di P O L L I N E, il festival più corto mai inventato a cui ha partecipato anche il nostro Solko, si sono svolte conferenze, performance artistiche, videoproiezioni e mostre mentre gli appassionati di cibo giapponese hanno avuto la possibilità di deliziare il loro palato con cibo nipponico e djset offerti dalla fantastica De Monique.
Nel frattempo io che vagavo da una stanza all’altra come una bambina in un parco giochi, ho avuto modo di apprendere tre cose fondamentali: i giapponesi hanno una cultura del tatuaggio che i nostri braccini con le ragnatele sui gomiti e i tribali sui bicipiti al confronto sono caccole colorate di cui dovremmo vergognarci solo a chiamarli tatuaggi; che se non hai pazienza non devi farti invitare a bere un té preparato da un’amica giapponese; e che le corde sono un pezzo forte della cultura erotica giapponese. Ma procediamo con ordine.

foto di Marco Pasqua

foto di Marco Pasqua

 

Per quanto riguarda la storia dei tatuaggi sono già in difetto perché dovrei chiamarli con il loro vero nome giapponese: Irezumi. Questo l’ho scoperto durante la conferenza tenuta da Anna Livia Carella nel pomeriggio, la quale ci ha illustrato la storia e dunque l’evoluzione di questi tatuaggi che vengono edificati, nel vero senso della parola, su quasi tutto il corpo, attraverso la rappresentazione di scene, personaggi e particolari della cultura giapponese. Un po’ come nell’arte pop surrealista costellata da artisti tatuatori che poi si mettono anche a dipingere e diventano famosi, anche in Giappone chi realizza irezumi diventa molto più che una celebrità, un vero e proprio maestro che trasmette la sua tecnica ai suoi seguaci che ne glorificano lo stile nel corso del tempo. Coloratissimi e intrighi, gli irezumi sono stati oggetto di discriminazione, soprattutto perché venivano associati ai clan malavitosi della cosiddetta yakuza, la mafia giapponese, mentre oggi sono più accettati tra la gente comune che non disdegna comunque anche quelli in stile “occidentale” se mi consentite l’aggettivo.
Veniamo al té. I giapponesi non scherzano in fatto di té, il quale servito esclusivamente in tazze di porcellana appositamente diverse per ogni ospite invitato, fantasticamente decorate a mano e con tanto di cerimonia iniziale e finale la cui parte centrale è quasi totalmente priva di dialogo. Se pensate di parlare dei vostri problemi coniugali o del mutuo da pagare quando un’amica giapponese vi invita a bere un the a casa vi sbagliate di grosso. Quello del té è un momento di riflessione, di invito al silenzio quasi mentre si assapora la bevanda che la vostra amica vi ha preparato con tanta dovizia e molta lentezza. Ecco, dovete avere pazienza e amare la vostra amica. E soprattutto fate qualche esercizio prima di farvi invitare perché il té in Giappone si beve stando seduti sulle ginocchia.

foto di Marco Pasqua

foto di Marco Pasqua

 

Ma veniamo alle corde. Quella della Shibari o kinbaku è un’arte che affonda le radici in un tempo lontano, quando dal 1400 al 1700 veniva considerata una forma di incarcerazione per poi successivamente assumere una vera e propria forma d’arte, in cui il Nawashi, ovvero l’artista che esegue, attorciglia le corde intorno al corpo femminile che si presta al gioco fino a formare delle vere e proprie forme geometriche che contrastano con la superficie corporea dello stesso soggetto, creando un’intesa sensuale sia con l’artista che con chi osserva.

foto di Marco Pasqua

foto di Marco Pasqua

 

Questo è quello che ho imparato dalla cultura giapponese. Prometto di studiare di più. Ringrazio la mia amica Togaci per il materiale fotografico. E soprattutto per avermi invitata.

Quello che non vi ho detto lo travate qua: www.kokeshirebelfest.com.

 

Eva Di Tullio

scritto da

Questo è il suo articolo n°178

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